Quota 100 come metafora
Istituzioni ed economia
A parte le manette agli evasori – sempreverde incesto tra populismo sociale e populismo penale – la discussione sulla manovra finanziaria del governo giallorosso, sulle sue spese non negoziabili e sulle sue improbabili coperture ha finito per vertere soprattutto sul monumento salviniano del governo gialloverde: quota 100.
In particolare, Italia Viva ha messo nel mirino (di una pistola a salve) questa costosa eccezione alle regole del pensionamento anticipato previsto dalla legge Fornero, per ricevere dal Presidente del Consiglio la risposta che quota 100 rappresentava un “pilastro della manovra”.
Quota 100 è dunque divenuta una sorta di simbolo multiuso, uno strumento di differenziazione politica e di retoriche divergenti all’interno della maggioranza, senza che nessuno davvero ne abbia messo in discussione l’intangibilità. Neppure Italia Viva, che pure avrebbe i numeri per farne una questione dirimente.
Ma perché quota 100 è intoccabile, se non con una (benedetta) operazione kamikaze? Perché è più che popolare: è una vera metafora dell’Italia politica, è la rappresentazione di un ideale di giustizia, e l’ideologia sociale nazionale che si fa vero e proprio sentimento morale.
In un sondaggio di qualche giorno fa, risulta che mentre per un italiano su due quota 100 non si tocca, solo per un italiano su 100 andrebbe abolita. I restanti ne accetterebbero solo una parziale modifica. È noto che i beneficiari di quota 100 saranno poche centinaia di migliaia nel triennio 2019-2021. È meno noto che un ancora più profondo scasso nei conti previdenziali è stato operato con il blocco (fino al 2026) a 42 anni e 10 mesi dell’età di pensionamento anticipato. In ogni caso, quota 100 non avrà un numero di beneficiari diretti e indiretti sufficienti per giustificare un così diffuso favore popolare in termini puramente opportunistici.
La grande maggioranza dei sostenitori di quota 100 è un contributore, non un percettore di questa eccezione. È un pagatore, e solo pagatore, di una cosiddetta riforma che secondo la Ragioneria dello Stato costa 63 miliardi di maggiore spesa previdenziale fino al 2036.
Nello stesso tempo, la grande maggioranza degli italiani si riconosce in quota 100, anzi nel mondo, nella società e nello Stato di quota 100, cioè nell’idea che la giustizia sociale non matura nel lavoro, ma nella quiescenza, non nell’occupazione, ma nella non occupazione, cioè nel tempo liberato dal lavoro e restituito così alla vita. Anche il carattere ormai schiavistico del nostro sistema previdenziale a danno delle nuove generazioni, non suscita rivolta e scandalo, ma nostalgia e rimpianto, anche in molti elettori “schiavizzati”.
Dentro tutto questo c’è una intera filosofia, che precede di gran lunga l’invecchiamento dell’elettore mediano e che ha reso i vecchi di oggi e giovani di ieri i più bulimici consumatori di spesa sociale, facendone il modello irraggiungibile e quindi frustrante dei giovani di oggi e di domani. Che peraltro non ignorano affatto che la battaglia per quota 100 non riguarda la lotta alla povertà o al disagio sociale, ma, per così dire, il diritto umano politicamente acquisito, ma economicamente conculcato a una spesa sociale anni ’80.
I dati diffusi ieri da Save The Children sul tasso di povertà assoluta che nell’ultimo decennio è triplicato tra i minori e aumentato in tutte le classi di età, tranne che per quelle più anziane, rimbalzano contro questo muro di gomma ideologico, che non ignora la realtà dei numeri, ma ne contesta l’ammissibilità sociale e la tollerabilità politica. Se quindi quota 100 rappresenta la metafora dell’Italia, rappresenta anche la metafora della sfida politica anti-populista e la misura della sua gravità e difficoltà.