Sta suscitando interesse tra gli addetti ai lavori (gli italiani hanno evidentemente cose più importanti di cui occuparsi) la posizione del coordinatore della Commissione Statuto del PD, Maurizio Martina, anticipata in una intervista martedì 9 luglio a Repubblica. La sua tesi è che andrebbe superata la coincidenza tra Segretario del partito e Presidente del Consiglio. Non è un punto marginale. Non tutti gli articoli di uno Statuto sono uguali e la coincidenza tra Segretario del partito e Presidente del Consiglio è tra i punti costituenti del PD. Abbandonare quel principio vuol dire cancellare l’innovazione principale rappresentata dalla sua nascita.

Sbaglia chi vede la principale innovazione nelle primarie, che sono solo la conseguenza organizzativa di qualcosa di molto più importante. Ovvero la nascita di un partito a vocazione maggioritaria, «costituito da elettori ed iscritti», recita lo Statuto all'Articolo 1, che prendeva atto di come la diarchia segretario-premier (uso il termine improprio per brevità, me ne scuso) avesse portato ai più grandi fallimenti delle esperienze di centrosinistra dal 1996 in poi.

Il punto che si sottovaluta è infatti proprio questo: il nodo non è tanto la coincidenza tra segretario e candidato alla premiership, ma la scelta di risolvere alla radice il potenziale conflitto partito-governo in caso di vittoria delle elezioni, quando il candidato smette di essere tale e assume l’incarico dal Presidente della Repubblica. In caso di sconfitta, infatti, va da sé che il segretario farà solo il segretario, mentre nel caso in cui il Quirinale dovesse fare scelte diverse, sarebbe una sconfessione tale da impedire al segretario di fare anche solo il segretario (c’è anche un precedente, la nascita del governo Letta, dopo l’umiliazione di Bersani a colloquio con i grillini in diretta web).

Ci sono alcuni aspetti di quella intervista che giustamente hanno irritato gli iscritti al PD. Non ha torto ad esempio il Prof. De Bernardi quando fa notare: «Sono tra gli iscritti del Pd eletto tra i membri dell'Assemblea Nazionale che è stata convocata il 13 luglio con all'ordine del giorno la nomina della commissione della riforma dello Statuto. Però si apprende dai giornali che Martina, il presidente designato, ha convocato un'altra commissione da lui istituita - probabilmente con Franceschini e Smeriglio - che è già arrivata alle conclusioni politiche. […] Esse se non ho mal capito verranno presentate all'assemblea e forse passate ai membri della commissione ufficiale perché le ratifichino. A questo punto mi chiedo: che ci vado a fare a Roma, perdendo tempo e denaro?». Aggiungo io che non è la prima volta che su un passaggio così importante si prova a mettere l’Assemblea davanti al fatto compiuto.

Un solo esempio, clamoroso visto che il protagonista fu poi sostenuto alle primarie da un pezzo importante dei cosiddetti renziani: Martina (allora segretario del partito) provò a fare un blitz in occasione dell’ultima Assemblea prima delle primarie 2019 per cambiare lo Statuto in quel senso. Quel tentativo fallì per il sollevamento generale dei contrari (i cosiddetti renziani, appunto) e con la promessa di far precedere una scelta del genere da una discussione, che ironia della sorte si disse non andava fatta sui giornali…

Ma queste sono cose che attengono agli iscritti al PD e alla sua vita interna. Ci sono invece alcune considerazioni politiche che credo possano interessare anche chi guarda con più distacco alla vita di quel partito ed è invece interessato alle sorti del centrosinistra. Per inquadrare la pars construens sono necessarie però tre considerazioni generali, che per brevità riassumerò in modo molto schematico, scusandomi per la crudezza.

1. Dire che la coincidenza segretario-premier va superata perché bisogna fare la coalizione è un modo per prendere per il naso gli allocchi, visto che lo Statuto del PD prevede già primarie di coalizione per scegliere il candidato premier. Impostare il tema con questa premessa non depone a favore della serietà con la quale si vuole discutere.

2. Un minimo di onestà intellettuale (in assenza di quella, dovrebbe bastare l’amor proprio) consiglierebbe di evitare di usare la vocazione maggioritaria nei giorni pari per ammazzare ogni tentativo di dar vita ad una forza liberale democratica e riformatrice, per poi nei giorni dispari dichiararla fuori tempo, vuoi per giustificare il superamento della coincidenza segretario-premier vuoi la ricerca di coalizioni (con chi? Ho paura della risposta).

3. Se non deve ricoprire anche la carica di Presidente del Consiglio, eleggere il segretario di un partito con le primarie è una scelta illogica, inutile e controproducente. E svela l’indicibile: che le primarie sono considerate da chi lo propone solo un feticcio, intoccabili, ma solo per questo, e non la naturale conseguenza di una scelta di campo. Essere un partito che «affida alla partecipazione di tutte le sue elettrici e di tutti i suoi elettori le decisioni fondamentali che riguardano l’indirizzo politico, l’elezione delle più importanti cariche interne, la scelta delle candidature per le principali cariche istituzionali» (Art. 1, c. 3 dello Statuto).

La parte interessante dell’intervista di Repubblica a Martina è la seconda. Si fanno affermazioni molto belle e sfidanti su come organizzare un partito di elettori. Ciò che le rende poco credibili è che quelle proposte senza la «vocazione maggioritaria» sono solo formule, auspici. È come se si volesse la botte piena (rappresentare la quasi totalità della coalizione) e la moglie ubriaca (il ritorno di un partito «vecchio stile», non contendibile dal primo Renzi che passa).

Il PD vuole tornare ad essere un «partito tradizionale», un partito «di iscritti»? È una scelta. Chi - dentro e fuori il PD - ha a cuore il rafforzamento di una coalizione di centrosinistra, questa sì «di elettori», dovrebbe invece lavorare per rilanciare. Vedo in particolare tre mosse, dal forte valore simbolico, ma anche utili a restituire riconoscibilità e ruolo a chi si vuole opporre al governo in carica e a entrambe le forze politiche che lo sostengono. Le prime due da realizzare prima possibile, la terza ovviamente più a ridosso delle elezioni.

Uno. Il «capo politico»  sarà comunque scelto dagli elettori della coalizione e non dai partiti. Diversamente (se il PD andrà avanti con l’idea annunciata da Martina in quella intervista) ci troveremmo nella situazione paradossale di un segretario di partito eletto con primarie aperte e un capo del governo individuato in una stanza chiusa.

Due. Il «capo politico» darà vita ad un governo ombra, espressione di tutta l’opposizione che c’è. In Parlamento e nel Paese.

Tre. I candidati dei collegi uninominali (perché i fautori di un ritorno alle logiche del proporzionale fanno finta di dimenticarlo, ma ci sono anche quelli) saranno individuati anch’essi da primarie di coalizione.

Per chi ha creduto nel PD partito-coalizione la scelta di «trasferire» dal partito che lo ripudia alla coalizione tutto il portato innovativo alla base della nascita del PD potrebbe apparire come una sconfitta e probabilmente lo è. Ma ci sono cose che fanno più danni di una sconfitta: una di queste e non accorgersi di averla subita e continuare a far finta che non sia successo nulla.

@marcocampione