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Stories are compasses and architecture, we navigate by them, we build our sanctuaries and our prisons out of them, and to be without a story is to be lost in the vastness of a world that spreads in all directions like arctic tundra or sea ice. (Rebecca Solint)

Negli ultimi anni molti osservatori hanno cercato di individuare le cause della crisi del liberalismo occidentale, e di capire se possa essere superata e come. C’è stato comprensibilmente un fiorire di libri sullo stesso tema, spesso simili nello schema iniziale: tutti partono dalla caduta del muro, tutti citano la famosa “fine della storia” sentenziata da Fukuyama come premessa sbagliata, così come quella deI “mondo piatto”. Tutti hanno un taglio autocritico in quanto “élite occidentali” e decisamente pessimista. La qualità dei saggi naturalmente varia e alcuni riescono ad essere interessanti pur seguendo linearmente questo schema (ad esempio “Il tramonto del liberalismo occidentale” di Edward Luce).

L’essere umano è naturalmente portato a vedere un disegno nel corso della storia, come nel noto fenomeno della pareidolia: l'illusione che tende a ricondurre a forme note oggetti dalla forma casuale. Cioè a vedere volti nelle nuvole, nel profilo di una montagna e così via. L’impressione è che lo shock causato dalla rottura di un percorso che sembrava andare a gonfie vele, e a "lieto fine occidentale", possa portare gli osservatori a raccontare una “contro-storia” di senso opposto, ingenuamente lineare anche laddove ciò che sappiamo è ancora molto indefinito. E quindi liquidare in toto la visione rappresentata dal celebre saggio di Fukuyama anche se basata su ragionamento profondo e dati (parziali) innegabili. D’altra parte, l’istinto a cogliere un disegno nel corso della Storia si ricollega proprio al bisogno umano di prevedere il prossimo futuro e non sentirsi schiacciati dagli accadimenti.

La difficoltà sta però proprio nell’individuare i fattori determinanti di questa crisi che ha una comune matrice occidentale, al di là delle diverse declinazioni e sfumature. Distinguere le cause reali da quelli che sono meri sintomi o cause secondarie e tipiche solo di alcune realtà. Se ad esempio mi concentro solo su rilevanti mancanze del sistema americano non spiego nulla del perché la stessa crisi si manifesti simultaneamente in un sistema completamente diverso come quello italiano. Il noto politologo Ian Bremmer individua quattro cause fondamentali, cogliendo secondo me gran parte del problema.

1. La mancata crescita dei redditi. Molte economie investite dal populismo vedono comunque una crescita del Pil costante negli ultimi anni ma un’erosione della classe media, un abbassamento della qualità di vita, la delusione delle aspettative precedenti. Questa è la causa fondamentale: l’insoddisfazione economica (spesso da persone che non sono le più povere) porta ad altre insicurezze e a cercare nemici. C’è una bella citazione di Tocqueville: “...spinti dal più imperioso di tutti i bisogni: quello di non decadere dalla loro posizione”. È la soddisfazione della classe media che può portare a incoronare un dittatore come Erdogan così come nel caso opposto a mettere in discussione la stessa democrazia liberale.

2. Immigrati, ovviamente. Le differenze di nazionalità, di lingua, etniche rafforzano i più importanti meccanismi tribali del nostra mente; sono i primi baluardi cui ci aggrappiamo nei momenti di crisi. I fenomeni migratori comportano ansie culturali ed economiche, talvolta giustificate, e sono stati una costante nella narrazione del populismo occidentale, forse quella più pervasiva.

3. I social network. Questo è uno dei temi fondamentali che tutti percepiamo (e quindi rischiamo di sopravvalutare) ma sui quali la letteratura scientifica è ancora inevitabilmente scarsa. Di sicuro i social hanno completamente cambiato il modo di approcciarsi all’informazione. Hanno creato per ognuno le famose “echo chamber”; hanno spaventosamente alterato la rilevanza dell’impatto emotivo di una notizia sulla sua diffusione (e quindi il modo i cui i giornali le presentano); hanno targettizzato molto più facilmente gli elettori facendo sì che i politici possano rivolgersi solo alla loro curva, fomentandola, perdendo qualsiasi incentivo a messaggi bipartisan che anzi vengono automaticamente insabbiati dai meccanismi dei social. Il medium è il messaggio, e i nuovi media sono stati la nuova politica, sempre più radicalizzata.

4. Da ultimo Bremmer cita le guerre, cioè l’interventismo. È chiaramente una prospettiva americana che per la pacifica Europa risulta forzata. Ma inseriamo il concetto anche nel dibattito pubblico europeo: c’è una diffusa messa in discussione dell’ordine occidentale. Un ribaltamento della prospettiva solo dello scorso decennio dove avevamo quasi ovunque destra convintamente interventista e sinistra che seguiva con la terza via: oggi abbiamo la destra ancora meno interventista dei vari centrosinistra rimasti con molte crisi di coscienza. Anche in Europa Blair è particolarmente ricordato e criticato per l’Iraq e nella provinciale Italia abbiamo il 60% dell’elettorato che sostiene la coalizione più filorussa e antiatlantista di sempre. Quando non ti fidi del tuo sistema economico, del tuo sistema democratico, del tuo sistema di informazione, è evidente che non sosterrai gli interventi militari di questo stesso sistema.

A conferma di questi quattro punti Ian Bremmer cita il caso opposto del Giappone, dove il consenso per la politica tradizionale resta ampio. Mancata crescita economica ma popolazione decrescente: pro capite, dice, l’economia giapponese non sta andando così male. Niente immigrati: in Giappone sono tutti giapponesi. Ruolo dei socialnetwork molto ridotto, lontanissimi dalle dinamiche che invece accomunano perfettamente i paesi occidentali. Niente interventismo militare, da nessun punto di vista. È evidente che il Giappone sia un mondo così lontano dal nostro che queste differenze sociali potrebbero essere secondarie rispetto ad altre, ma non è l’unico controesempio e mi sembra che grossomodo il modello regga.

Nei punti citati c’è una grande mancante: la diseguaglianza economica, che invece viene frequentemente indicata dai progressisti come causa fondamentale della crisi del liberalismo. A mio avviso si tratta di una mancanza corretta. Se davvero la crisi del liberalismo fosse dovuta alle frustrazioni e ingiustizie derivanti dal grande arricchimento del famoso 1% non vedo per quale motivo il popolo americano avrebbe eletto presidente un miliardario, facoltoso ereditiere, pacchiano, che non fa che ripetere quanto è ricco. E infatti il successo di Trump non deriva dalle classi economicamente più sofferenti. In Italia la diseguaglianza non è minimamente stata un tema della campagna elettorale che ha visto il trionfo di due forze politiche populiste. In generale in Europa sembra tirare solo con Corbyn, in un Paese però governato dai Conservatori e dove la stessa Brexit (citata come sintomo della crisi occidentale al pari di Trump) è stata abbracciata e accompagnata da tutt’altre pulsioni.

Osservando il coefficiente di Gini (misura della diseguaglianza) dei vari Paesi del mondo, o anche solo dell’occidente, non si riesce obiettivamente a cogliere una correlazione precisa tra diseguaglianza e populismo, sul quale sembrano incidere molto più significativamente altri fattori; spesso identitari più che sostanziali. Scendere dal gradino 6 al gradino 5 può essere una posizione molto più scomoda del trovarsi al gradino 3, se in quest’ultimo caso venivi dallo 0 e le tue prospettive sono di costante crescita. E la frustrazione della classe media non deriva necessariamente dall’arricchimento dell’1%. Anche perché abbiamo visto che quello economico è solo uno dei fattori.

Mi sembra evidente che se quelli che abbiamo trattato fossero anche solo parte della causa delle crisi del liberalismo occidentale, la stessa crisi non potrà essere del tutto risolta. I social media, ad esempio, hanno fortemente abbassato il livello del dibattito pubblico e non è possibile tornare indietro. Nel nostro tempo i toni della politica saranno più radicali di quelli degli scorsi decenni, la qualità dell’informazione sarà molto più scadente (e non abbiamo neanche citato il problema delle fake news e delle ingerenze) e la fiducia nella stessa più bassa. Il tribalismo degli elettorati sarà una costante e la moderazione del linguaggio sconterà un forte svantaggio competitivo.

L’ossessione per gli immigrati potrebbe parzialmente rientrare col passare del tempo e con politiche platealmente conservatrici; ma anche acuirsi in momenti di maggiore crisi economica. Di sicuro immensi fenomeni migratori segneranno questo secolo e resteranno un tema centrale del dibattito pubblico delle democrazie occidentali. La crisi dei redditi sembra più difficile da risolvere di quella dei Pil, con la nuova economia che offre molte opportunità ma a guadagni scadenti e zero tutele, e dovrà inoltre affrontare il colossale tema dell’automazione del lavoro. Sul piano dell’interventismo i governi occidentali si sono certamente ridimensionati e ciò lascerà maggiore spazio agli imperialismi emergenti, ma al momento è l’unica prospettiva elettoralmente accettabile.

Insomma più che davanti a una crisi ci troviamo all’interno di una nuova epoca, con nuove sfide enormi che si imporranno per molti decenni. La storia non era finita, ma non è detto che lo sia anche il liberalismo occidentale. Peraltro anche i Paesi emergenti dovranno affrontare presto problemi analoghi, e la migliore qualità di capitale umano, così come la maggiore ricchezza costruita, potrebbero rivelarsi carte inaspettate a vantaggio dei Paesi occidentali. Quella che sembra prospettarsi all’orizzonte è un’epoca nietzschiana più che una linearità di senso opposto a quella immaginata negli ultimi decenni.

L’economista Robert Heilbroner disse: “La prospettiva della storia come una contingenza è più di quanto l’essere umano possa sopportare”. Eppure gli osservatori faranno bene ad abituarsi. In fondo le nuvole possono essere minacciose o meravigliose anche senza rappresentare alcun volto.