E' da almeno 20 anni che in Italia si discute di legge elettorale seguendo tre totem apparentemente indiscutibili: la "governabilità", la "stabilità" e il "no al proporzionale" considerato dai più l'antidoto per eccellenza ai primi due. La ragione di questo approccio è una reazione, un po' isterica e irrazionale, al sistema di potere che ha governato il paese durante la cosiddetta Prima Repubblica. Quel sistema, lo ricordo per gli smemorati, si reggeva sul presupposto (politico, storico e di rapporti internazionali) che il PCI non potesse governare e che la DC fosse il perno del sistema intorno al quale, con diversi più piccoli alleati che cambiavano nel tempo, costruire dei governi brevi che potessero rispecchiare i microequilibri politici del momento. Una palude immobile e insieme ipercinetica, con esecutivi che hanno sempre visto la DC dare le carte, ma che sono durati, in media, circa 8 mesi.

seggio elettorale

Questo sistema è andato in crisi negli anni successivi alla caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. In quel momento il partito comunista, diventato in breve PDS, rivendicava la possibilità di governare, finalmente, il Paese e di proporsi come alternativa alla Democrazia Cristiana. Ma il sistema era ancora bloccato. La ragione di questo blocco però era un sistema di potere ormai incancrenito (ma in breve mobilizzato con tangentopoli), non certo il sistema di voto. La legge elettorale (con i referendum di Segni e il "passaggio" al quasi maggioritario Mattarellum) è stata però il definitivo innesco di un nuovo sistema politico basato, finalmente, sull'alternanza (elemento sano e fondamentale per una democrazia moderna). Per tale ragione, quindi, si è sempre ritenuto di legare il concetto di alternanza al sistema maggioritario e la palude immobilista che impediva un'alternativa politica al partito al potere, al proporzionale.

Questa analisi è errata, a giudizio del sottoscritto. I sistemi maggioritari, in un Paese, come il nostro, con una cultura nazionale decisamente pluralista, forzano i partiti o a coalizzarsi o comunque a formare intese elettorali basate solo ed esclusivamente sulla "voglia di vincere" e di sconfiggere l'avversario. Abbiamo visto Ulivi, Unioni, Poli e Case delle libertà formate da accozzaglie di forze politiche enormemente diverse l'una dall'altra (Mastella e Bertinotti, Bossi e Fini, Casini e Pannella, etc...). Lo specchietto per le allodole alla semplificazione maggioritaria è stata sostenuta negli anni da una promessa che, nel paese dell'uomo forte, ha attecchito subito: la disomogeneità di queste coalizioni è in realtà irrilevante, quello che conta è "il leader" o "candidato premier" che funge da sintesi suprema e garantirebbe un risultato eccellente nonostante gli ingredienti agrodolci delle rispettive coalizioni. E quindi abbiamo avuto i Prodi, i Berlusconi, i Rutelli, i Berlusconi, i Veltroni, i Berlusconi e ora Renzi (e, pare, ancora Berlusconi).

Peccato che tutto questo si sia infranto contro il muro di una cruda e dura realtà. Il nostro è un sistema parlamentare (come quello di gran parte dei paesi europei) e dunque il "dominus" dell'agire politico è il Parlamento e il Presidente del Consiglio ben poco può, nonostante la fiducia e la speranza che gli italiani riponevano in questa figura. Nei sistemi parlamentari, normalmente, si confrontano diverse opzioni politiche limpide, tendenzialmente sostenute da una cultura e una visione di fondo: in Europa ci sono i socialisti, i popolari, i liberaldemocratici, i verdi, i nazionalisti, i comunisti, etc... Queste "visioni" si confrontano in campagna elettorale e cercano di convincere, anche sulla base di proposte concrete, i cittadini. All'esito del voto, verificato quanto ciascuna di queste visioni ha convinto, in parlamento la forza che ha preso più voti (incaricata per tale ragione dal Capo dello Stato) cerca, se necessario, un accordo con altre forze (qualche volta, se ritenuto opportuno, anche dalle due forze principali se esistono punti di contatto maggiori che con le forze minori). Questo accordo è in genere fondato su un limpido compromesso tra visioni diverse che porta il governo e il suo presidente a impegnarsi a portare avanti alcuni elementi programmatici del partito vincente e altri punti proposti delle forze alleate (vedi alla voce patto di coalizione). Tali accordi si basano sulla forza che i cittadini hanno assegnato ai vari partiti e pongono il parlamento al centro del dibattito politico.

All'esito del periodo di governo, ciascuna forza politica fa un bilancio della propria esperienza e dei risultati ottenuti, lo sottopone alla Nazione e i cittadini decidono. Questa dinamica è normale, nota e vissuta in quasi tutti i paesi europei (Gran Bretagna inclusa, con la coalizione Conservatori – Libdem, nata nonostante il sistema maggioritario uninominale, che di per sé non garantisce maggioranze certe). E nonostante questo, in Italia, insistiamo a ritenere che, per i sopradetti totem della "stabilità" e della "governabilità", sarebbe essenziale introdurre sistemi a forte impronta maggioritaria (e lo sono, oltre che quelli basati sui collegi uninominali all'inglese o alla francese, anche quelli strutturati con premi di maggioranza, come accade nelle "democrazie" presidenziali sudamericane).

Anche questa volta, dopo esser passati da un maggioritario uninominale misto (Mattarellum) a un sistema maggioritario con premio e ampi collegi plurinominali bloccati (Porcellum), apparentemente stiamo transitando verso un sistema maggioritario con premio e piccoli collegi plurinominali (lo chiamano Italicum, ma lo definirei Ammucchiellum).

Nelle leggi elettorali quello che conta sono i dettagli (ancora non noti). Certo è che l'esistenza di un premio di maggioranza incentiverà la creazione di ammucchiate disomogenee volte principalmente a "vincere" il premio (come coalizione o come lista, poco conta), salvo poi (come è regolarmente accaduto) dividersi il giorno dopo il voto. L'alternativa a sistemi maggioritari (intendendo per tali, lo si sarà capito, quelli che favoriscono le aggregazioni ampie e disomogenee piuttosto che l'emergere di limpide visioni politiche omogenee) è l'ampio ventaglio di sistemi proporzionali, con o senza preferenze, sbarramento più o meno alto, con collegio uninominale o plurinominale (ampio o ristretto), con preferenza semplice o alternativa, eccetera...

Sono convinto del fatto che, a regime parlamentare invariato (e non mi sembra ci sia né la voglia né i tempi per modificarlo davvero), sia meglio ragionare su quale sistema "proporzionale" sia meglio per il nostro Paese. Sono infatti certo del fatto che una delle mancanze più gravi di questi ultimi vent'anni sia stata la totale assenza di progetti politici coerenti e di dibattito pubblico sulle "cose da fare" con, invece, un'ordalia tra bande che si è risolta in un sistema sostanzialmente "instabile", comunque "ingovernabile" e sicuramente irresponsabile. L'assenza di patti coalizionali basati sul consenso reale ottenuto nel paese per le proprie idee, ma su accordicchi preelettorali fondati, se va bene, sui sondaggi ha consentito ai vari leader di scaricare sul partitino di turno la colpa dell'inerzia che questi magnifici 20 anni di "maggioritario" ci hanno consegnato.

Insomma, la vera governabilità è data da un sistema in cui ogni cittadino si fa "rappresentare" in parlamento per le proprie idee e la propria visione di paese e questo trova, con i rappresentanti delle altre forze politiche un punto di incontro per formulare una proposta di governo. E il parlamento torna ad essere il centro del dibattito del paese e non un votificio squallido al servizio di poteri opachi e dell'inerzia del sistema.