C'era una volta Maverick. La storia di John McCain
Istituzioni ed economia
In America, quella del 1967 la avevano chiamata the Summer of Love: l’anarchia pop dei figli dei fiori, i capelli lunghi e l’LSD, Janis Joplin e i Jefferson Airplane. Ma anche l’inizio delle contestazioni studentesche diffuse, dopo i prodromi di Berkley. Il 21 ottobre centomila giovani pacifisti avevano tenuto a Washington la “Marcia sul Pentagono”, la prima grande manifestazione di protesta contro la guerra del Vietnam.
Cinque giorni dopo, sull’altra sponda del Pacifico, John Sidney McCain Terzo era decollato dalla portaerei USS Oriskany, nel Golfo del Tonchino, per la sua ventitreesima missione: doveva bombardare una centrale elettrica nei pressi di Hanoi, “la città con la difesa contraerea più massiccia della storia” come lui stesso l’avrebbe definita anni dopo. Aveva trent’anni. Era in Vietnam come volontario, con i gradi di luogotenente nell’aviazione della Marina.
Non appena McCain raggiunse il bersaglio, il suo A-4 Skyhawk venne colpito da un missile di fabbricazione sovietica, lanciato dalla contraerea vietnamita. Fece appena in tempo a sganciare le sue bombe sull’obiettivo, quando l’aereo perse l’ala destra e precipitò in avvitamento. Riuscì a farsi espellere dall’abitacolo, ma la detonazione gli ruppe entrambe le braccia e una gamba. Quasi privo di sensi, cadde con il paracadute in uno dei laghetti che ancora oggi abbelliscono la capitale del Vietnam. Una piccola folla di abitanti della zona lo ripescò, lo massacrò di botte (uno gli assestò una coltellata all’inguine), e lo consegnò ai soldati.
Questi scoprirono ben presto che il prigioniero era figlio dell’ammiraglio che stava per entrare in carica come comandante della flotta americana nel Pacifico. Per usarlo come strumento di propaganda, fecero subito intervenire una troupe televisiva francese che lo intervistò prima delle torture, ricoverato in ospedale apparentemente in condizioni decenti. Quelle immagini fecero subito il giro del mondo, ad uso e consumo dell’opinione pubblica antiamericana; dopodiché i viet lo torturarono e lo spedirono, più morto che vivo, in un campo di concentramento.
Dopo un anno, gli offrirono la possibilità di tornare a casa. McCain comprese lo scopo: indurre il privilegiato (the Crown Prince, “il principe ereditario”, lo chiamavano i suoi carcerieri) a calpestare il principio “first captured, first released” - prima deve essere liberato chi prima è stato catturato - sancito dal codice d’onore dei prigionieri di guerra americani.
Se John McCain viene considerato un eroe di guerra, lo deve alla risposta che diede quel giorno ai suoi aguzzini. Nel suo ufficio al Senato avrebbe conservato, incorniciato come un trofeo, il telegramma con il quale Haverell Harriman, che guidava la delegazione americana ai negoziati di Parigi sul Vetnam, comunicò a Washington che “Le Duc Tho ha menzionato che Hanoi voleva liberare il figlio dell’ammiraglio McCain, ma lui ha rifiutato”.
Prova a immaginare quella frazione di secondo, tra l’offerta della liberazione e il suo rifiuto. Prova a immaginare se fosse toccato a te. Prova ad immaginare la violenza con la quale il tuo primordiale istinto di sopravvivenza ti avrebbe urlato nella testa in quel momento, e prova ad immaginare l’infinità di argomenti razionali che il tuo cervello avrebbe immediatamente prodotto per razionalizzare l’accettazione di quell’offerta. Fatto? Bene, allora adesso chiediti: tu saresti riuscito a dire di no, a rifiutare di tornare a casa?
Sono i taglienti interrogativi che il giovane scrittore postmoderno David Foster Wallace (che all’epoca aveva cinque anni) porrà nel 2000 ai lettori della rivista Rolling Stone, cioè ai trentenni del suo tempo, poco avvezzi a simili domande. “Non lo sai neanche tu”, si risponderà. “Nessuno di noi lo sa. Fai fatica anche solo ad immaginarti il dolore e la paura in quel momento, figuriamoci capire come ti saresti comportato”.
Era il 4 luglio del 1968. Il “principe ereditario” si era appena guadagnato una permanenza di oltre cinque anni (dei quali due in totale isolamento) nella prigione di Hoa Lo, che gli americani avevano soprannominato “l’Hilton di Hanoi”. Veniva torturato ciclicamente: denti rotti, costole incrinate, notti intere legato in posizioni dolorosissime. Senza contare la dissenteria, la febbre alta e soprattutto i dolori (da sopportare senza antidolorifici) delle fratture per la caduta in aereo, mai del tutto medicate. Per due volte tentò di suicidarsi impiccandosi nella sua cella.
Quando nel 1972 l’attrice americana Jane Fonda fece il suo famigerato viaggio ad Hanoi come militante pacifista, McCain ricevette dalle autorità vietnamite la richiesta di farsi filmare con lei mostrando di condividere le sue dichiarazioni contro la guerra. Anche stavolta rifiutò, e in quella occasione gli spezzarono nuovamente le braccia e lo sbatterono per cinque mesi in una cella ancora più piccola, di un metro per due – praticamente un armadio.
Venne infine rilasciato nel 1973, quando Nixon negoziò la ritirata, e rientrò negli USA assieme ad altri 591 prigionieri di guerra, con un peso corporeo di quarantaquattro chili ed i capelli candidi, coperto di medaglie (cinque) e di cicatrici (“più di quelle di Frankestein”, amava scherzare lui).
Nel 1985, nel decennale della fine della guerra, la CBS mandò in onda un documentario intitolato Honor, Duty and a War Called Vietnam, in cui il mitico Walter Cronkite, probabilmente il più autorevole cronista americano del secolo (nonché uno dei primissimi giornalisti statunitensi ad aver sostenuto, nel 1968, l’idea che l’America non poteva vincere quella guerra), visitava Hanoi assieme a McCain, ripercorrendo le tappe della sua prigionia. Tra queste, il lago in cui era precipitato quando era stato abbattuto, evento che i vietnamiti avevano immortalato erigendo sulla riva un monumento di cemento e bronzo che commemora l’eroismo della contraerea celebrando l’abbattimento del "famoso pirata dell’aria Jon Sney McKay" (“l’unica statua al mondo che rechi il mio nome, o comunque una sua versione approssimativa ma abbastanza somigliante”, chiosava scherzosamente lui).
Il Principe Ereditario, già. Suo padre era membro della Society of Cincinnati, un club molto elitario riservato a coloro che possono vantare un antenato tra gli ufficiali che combatterono con George Washington nella Rivoluzione americana (nel caso dei McCain si sarebbe trattato di un capitano di nome John Young, che combatté anche contro gli indiani per vendicare un fratello che era stato ucciso e “scalpato”).
Il fratello del suo bisnonno, Henry Pinckney McCain, aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale con i gradi di generale, e in suo onore un campo di addestramento a Grenada, nel Mississippi, in cui vennero preparate le truppe americane destinate a combattere in Europa nella Seconda Guerra Mondiale, venne chiamato “Camp McCain” (oggi è utilizzato per l’addestramento della Guardia Nazionale).
Il nonno John Sidney McCain Senior, detto “Slew”, era un ammiraglio della marina all’epoca in cui gli Stati Uniti si andavano dotando di una flotta navale degna di una superpotenza: nella Seconda Guerra Mondiale era stato al comando dell’aviazione navale durante la battaglia di Okinawa (lo si riconosce accanto al generale MacArthur in una famosa foto che immortala la firma del trattato di pace con il Giappone sul ponte della USS Missouri), distinguendosi al punto che ancora oggi una portaerei americana, assegnata alla base navale di Yokosuka in Giappone, è denominata in suo onore USS John S. McCain.
Il padre John Sidney McCain Junior, detto Jack, non era da meno: anch’egli ammiraglio della US Navy (unico caso nella storia di attribuzione di questa stessa carica sia al padre che al figlio), era stato comandante di un sottomarino durante la Seconda Guerra Mondiale, poi era divenuto comandante in capo delle forze navali USA in Europa negli anni Sessanta, ed infine, per l’appunto, era stato messo al comando della flotta americana nel Pacifico proprio nel periodo in cui il figlio era stato fatto prigioniero dai vietnamiti. “Non parlava quasi mai della mia prigionia a persone che non fossero membri della nostra famiglia” – ricorderà il figlio quarant’anni dopo - , “e comunque mai in pubblico. Tutte le sere si inginocchiava e pregava perché facessi ritorno a casa sano e salvo. Eppure, quando fu suo dovere farlo, ordinò ai B-52 di bombardare Hanoi, inclusa l’area in cui sapeva si trovava la mia prigione”.
L’abbandono della carriera militare spezzò quindi una tradizione dinastica straordinaria, della quale John – nato in un ospedale militare in una base americana sul Canale di Panama mentre il padre e il nonno erano di stanza laggiù, e cresciuto tra perpetui traslochi da una base della marina militare all’altra – appariva destinato sin dalla culla ad essere la “terza generazione”.
All’Accademia Navale di Annapolis, nel Maryland, dove i genitori lo avevano spedito quando aveva 17 anni e pochissima voglia di andarci, aveva passato la maggior parte del tempo “a venire additato come un esempio negativo, e a marciare per parecchie miglia in più rispetto agli altri come punizione per i voti troppo bassi, per i ritardi, per il disordine nell’alloggio, per l’aspetto trasandato, per l’aver tenuto comportamenti sarcastici e per svariate altre violazioni dei regolamenti dell’accademia” (parole sue).
La foto nell’annuario scolastico lo ritrae in versione Humphrey Bogart, con addosso un trench con il colletto rialzato e con la sigaretta che penzola in un angolo della bocca. Alla fine si era classificato ottocentonovantaquattresimo sugli ottocentonovantanove cadetti della sua classe. “Il giorno del diploma – racconterà in un’intervista – il Presidente Eisenhower, che presiedette personalmente la cerimonia, chiese di vedere l’ultimo della classe: ricordo di essermi un po’ dispiaciuto di non essermi impegnato un po’ di più per classificarmi male, per poco non ebbi l’occasione di stringere la mano al Presidente…”.
Forse, se la vita gli avesse davvero riservato la carriera militare che la famiglia gli aveva cucito addosso fin dal suo primo vagito, i fantasmi dei suoi avi lo avrebbero tormentato impedendogli di dare il meglio di sé; a cominciare da quello del padre, il quale si vantava di aver deciso di iscriversi all’Accademia sin dall’età in cui era stato “abbastanza grande da rendermi conto dell’esistenza di un posto come quello”.
È la stessa impressione riferita dallo psichiatra della Marina che lo seguì al ritorno dal Vietnam: la cartella clinica parla di un uomo in fuga dall’“ombra di suo padre”, che aveva trovato pace solo una volta insignito dello status di eroe di guerra. Il giorno in cui cessò di essere presentato come “il figlio dell’ammiraglio McCain”, e fu invece l’ammiraglio ad essere presentato come “il padre del Comandante McCain”, lo psichiatra notò sul suo viso “un sorriso che rivelava soddisfazione e sollievo”, e annotò: “ce l’ha fatta”.
A quanto pare la drammatica esperienza in Vietnam non è semplicemente l’accidente che dirottò sulla politica una carriera altrimenti spianata sotto le armi: è anche, o soprattutto, l’esperienza alla quale si deve il fatto che McCain sia stato quel particolare genere di uomo politico. Un genere raro, anomalo. Un politico incline a non fare la cosa più ovvia, a non scegliere la soluzione più conveniente a breve termine. Un rompiscatole, uno poco propenso a seguire la corrente. Capace di sfidare il semplice “istinto di autoconservazione”, che per un parlamentare equivale alla via più sicura verso la prossima rielezione.
“Maverick”: questa parola quasi intraducibile (più o meno sta per “cane sciolto”, o “battitore libero”), familiare a chi crebbe negli anni Ottanta per via del film Top Gun (dedicato, guarda caso, alle gesta di alcuni piloti della marina militare), è stata quella da lui prediletta per sintetizzare il suo personaggio.
Un buon esempio è la crociata che McCain combattè negli anni Novanta contro il cosiddetto “Pork-Barrel Spending” la pratica con la quale uno o più parlamentari riescono a dirottare una parte della spesa pubblica federale su costosi progetti “locali” o “particolari” di poca o nessuna utilità, ricevendo in cambio voti e appoggi dai pochi beneficiari di tali operazioni (una ricetta che anche noi italiani conosciamo fin troppo bene).
Da notare che questa battaglia McCain la potrò avanti non con coloriture moralistiche da ipocrita grillo parlante, bensì con argomentazioni pragmatiche e razionali: “per quanto ricca sia la nostra nazione, comunque non disponiamo di risorse illimitate. Se quando è ora di approvare la legge finanziaria noi parlamentari ci sbraniamo tra di noi per cercare ciascuno di portare a casa nel proprio collegio la fetta più grossa di finanziamenti a scapito delle risorse per le questioni nazionali, il risultato è non solo di balcanizzare l’America in una competizione tra gruppi d’interesse di matrice razziale o religiosa o di classe, ma anche di segare le gambe al perseguimento dei possibili grandi obiettivi di portata nazionale”.
Un altro dato significativo risiede nel fatto che McCain, noto falco in politica estera, è stato uno dei pochissimi esponenti repubblicani a sedere nella Commissione Difesa del Senato – della quale è stato anche più volte presidente – senza aver mai ricevuto in campagna elettorale finanziamenti dalla Boeing, il principale fornitore dell’esercito USA (tanto per intenderci: il suo mentore Henry “Scoop” Jackson, senatore democratico che pure aveva lungamente presieduto quella stessa commissione, veniva apostrofato dai suoi detrattori come “il senatore della Boeing”).
Anzi: nel 2002, allorché una commissione parlamentare autorizzò l’Aviazione Militare a noleggiare dalla Boeing cento aerei 767 per usarli per il rifornimento in volo dei velivoli militari, McCain si mise di traverso come solo lui sapeva fare. Il costo dell’operazione venne autorizzato tra un minimo di diciassette e un massimo di trenta miliardi di dollari, e se il Pentagono avesse invece disposto l’acquisto dei velivoli avrebbe risparmiato almeno sei miliardi. Il senatore dell’Arizona ingaggiò battaglia per dimostrare che quel “regalo” alla Boeing puzzava di bruciato, e nel 2004 riuscì a provare che dietro quello sperpero c’era una vicenda di corruzione. Con una teatralità degna di una fiction hollywoodiana, si presentò in aula e diede lettura di tutte le email che i funzionari prezzolati del Pentagono si erano scambiati con i lobbisti della Boeing per concordare l’affare. Alla fine la “sua” inchiesta fece saltare quell’accordo, che egli definì “una delle grandi truffe nella storia degli Stati Uniti d’America”, e che costò la galera ad alcuni funzionari del Pentagono e il licenziamento per svariati manager della Boeing.
Si potrebbe proseguire a lungo: il McCain coautore, con il Democratico di sinistra Russ Feingold, della legge che, per contenere il ruolo delle lobby, del big business e dei sindacati, aveva limitato drasticamente l’entità dei finanziamenti che i privati possono versare nelle campagne elettorali – legge poi pesantemente falcidiata dalla Corte Suprema; il McCain protagonista della battaglia parlamentare per mettere al bando il waterboarding, l’annegamento simulato impiegato nelle prigioni della CIA per estorcere confessioni ai sospetti terroristi; il McCain ostinato sponsor della proposta di legge che avrebbe concesso una sanatoria una tantum ad ognuno dei milioni di immigrati clandestini presenti negli USA dal almeno 5 anni, a patto però che il clandestino si facesse schedare, pagasse le tasse arretrate e una multa di 3.000 dollari, e passasse un esame di lingua inglese – mai approvata nonostante l’allora presidente Bush l’avesse sostanzialmente fatta propria; il McCain unico sponsor del surge in Iraq nel 2006 e nel 2007, quando tutti parlavano solo di battere la ritirata il più in fretta possibile, dapprima danneggiato da questa sua posizione impopolare, poi alla lunga premiato dalle buone notizie che arrivarono da Bagdad proprio all’inizio delle primarie presidenziali del 2007.
Mi sembra giusto guardarsi ora dalla tentazione di etichettarlo come un romantico grande sconfitto, uno che aveva il coraggio di sposare le cause perse e di battersi senza mai cedere alla tentazione di imboccare scorciatoie. Sarebbe sbagliato, per almeno due ragioni.
La prima è che sarebbe sciocco idealizzarlo come un santo. Come spesso accade a chi è uomo di azione più che di pensiero e a chi diventa avvezzo al rischio, McCain ha preso anche importanti cantonate, e spesso lo ha fatto proprio quando ha deviato dal suo tanto celebrato rigore: dal primo episodio alla fine degli anni Ottanta, quando si lasciò sporcare dallo scandalo dei “Keating Five”, una storia di favori al magnate Charles Keating, finito in carcere per truffa dopo aver distribuito mazzette, allo scivolone finale del “dossier Steele”, quando subito dopo l’elezione di Trump si prestò a fare da buca delle lettere consegnando al direttore dell’FBI una serie di informazioni taroccate su asserite collusioni fra il neo presidente e il Cremlino, messe assieme – si sarebbe poi appreso - su commissione del Team Clinton, e passategli da un ex diplomatico del quale avrebbe fatto bene a diffidare, facendo leva non solo sulla sua nota inimicizia nei confronti di Trump, ma ancor più su quella, ben più risalente, nei confronti di Putin, contro il quale McCain si è battuto come pochi nell’ultimo ventennio.
La seconda ragione è che McCain non è stato affatto uno che pur di tenere la schiena dritta ha collezionato per lo più sconfitte: al contrario, la sua carriera è fatta soprattutto di vittorie, dai 35 anni di ininterrotte elezioni al Congresso, alla sua rocambolesca vittoria alle primarie del 2008. La stessa sconfitta contro Obama andrebbe ricordata più per quanto egli si era riuscito ad avvicinare ad una vittoria apparentemente impossibile (a questo tema ho dedicato una separata analisi ieri su Forbes Italia)
Ciò nonostante mi ha fatto piacere, in questi giorni, vedere come uno dei ricordi più condivisi in rete sia stato il filmato del concession speech che McCain pronunciò nella notte del 5 novembre 2008, subito dopo aver appreso della sua sconfitta contro Obama. Trovo che quel filmato andrebbe mostrato nelle scuole, per mostrare cos’è la leadersip. Osservate il momento iniziale, quando dice “Poco fa ho avuto l’onore di telefonare al senatore Barack Obama per congratularmi con lui”: partono i booooo, e lui mette le mani avanti alzando le braccia all’altezza delle spalle (di più non poteva, a causa delle torture in Vietnam), ammonendo i suoi elettori con un garbato ma fermo please. La folla esita, lui riprende: “…congratularmi con lui per essere stato eletto come nuovo presidente della nazione che entrambi amiamo”. Piccolissima pausa. Riparte qualche boooo: molti meno di prima, però. Lui alza la mano destra in segno di “stop”, tipo vigile urbano.
A quel punto spicca il volo con il riconoscimento del valore storico insito nella prima elezione di un afroamericano alla Casa Bianca, con il ricordo di quando il suo idolo, il presidente Teddy Roosevelt, venne criticato per avervi ricevuto il militante per i diritti dei neri Booker T. La folla – la stessa folla che prima fischiava – ora ascolta in religioso silenzio. Le telecamere inquadrano molti volti, tutti – dal primo all’ultimo – bianchi. “Un mondo intero separa l’America di oggi” prosegue fiero “dalla crudele e spaventosa bigotteria di quel tempo. E di questo non potrebbe esserci miglior conferma dell’elezione di un afroamericano alla presidenza degli Stati Uniti”. A questo punto partono timidamente i primi applausi. Gli ultimi saranno scroscianti. Ecco cosa è un leader: una persona capace di raccogliere il consenso sfidando la folla, non seguendola; portandola (leading) altrove rispetto alla direzione verso la quale la folla stava premendo, anziché limitarsi a cavalcarne gli umori, solleticandoli. Ecco perché un vero leader è l’antitesi di un populista.
Tutto questo, si noti, senza concedere nulla all’avversario, mantenendo dritta la barra del suo ruolo di leale ma implacabile oppositore, quale McCain è poi stato nei confronti di Obama per tutta la durata della sua presidenza (basti ricordare la campagna che egli, inizialmente pressochè da solo, poi a poco a poco seguito da un numero crescente di senatori, ingaggiò nel 2012 per impedire che il presidente, appena rieletto, rimpiazzasse Hillary al Dipartimento di Stato con la sua amica Susan Rice, battaglia per la quale “sulla carta” McCain non aveva i numeri e che invece alla fine vinse, costringendo Obama ad abbandonare la Rice e a nominare invece il più moderato John Kerry).
Nell’aprire qui su Strade la riflessione sulla scomparsa di una figura come quella di McCain, Giordano Masini mi ha spinto a riflettere se ciò cui stiamo assistendo sia l’estinzione dell’ultimo della sua specie, di un personaggio che non potrà più tornare: se si tratti – sono parole sue – di una figura simile a quella di Cheyenne che nel finale di “C’era una volta il West” cavalca via e va a morire mentre arriva la ferrovia e con essa una modernità cui egli non poteva appartenere. Io voglio credere di no. Voglio credere che di anomalie paragonabili a John McCain – che proprio oggi avrebbe compiuto 82 anni - ne vedremo altre. Ovviamente fuori posto, proprio perché controcorrente.
Il suo essere un maverick, del resto, è stata la sua forza, non il suo limite. Non è da tutti. “Per vivere al di fuori della legge devi essere onesto”, cantava Dylan in un brano di quegli anni là, quelli in cui c’era chi si avviava verso la Summer of Love e chi, invece verso l’ennesimo volo su Hanoi.