Le soluzioni di Trump: chiare, semplici e sbagliate
Istituzioni ed economia
Faceva caldo lunedì, nella sala da ballo del lussuoso hotel di Roanoke, in Virginia, dove un Donald Trump reduce dalla Convention Nazionale di Cleveland stava spiegando ai suoi simpatizzanti come intende 'Rendere di nuovo grande l’America' in politica estera.
Si sudava, le signore agitavano i ventagli. A Trump questo fastidio è sembrato una occasione perfetta per spiegare come funzionano le cose. Ecco, vedete? Io qui pago il conto della sala, ma se i proprietari dell’hotel stanno facendo i furbetti risparmiando sull’aria condizionata, sapete che c’è? Io il conto posso anche decidere di non pagarlo. Perché se loro non fanno la loro parte, io ho diritto a non fare la mia.
Non si è trattato di una digressione estemporanea. Trump stava spiegando come intende gestire il ruolo dell’America nel mondo. E si riferiva, in particolare, alla sua sortita sulla politica estera che - in una intervista al New York Times pochi giorni prima - aveva suscitato maggior scalpore: ossia la affermazione che gli alleati devono smetterla di usufruire a scrocco della protezione militare garantita dagli Stati Uniti, e devono cominciare a contribuire in modo più equo ai costi delle strutture militari alleate.
Avrebbe potuto benissimo essere riconosciuta come la più obamiana di tutte le cose dette da Trump, perché da anni Obama va ripetendo esattamente la stessa cosa, in ogni occasione. Ha persino parlato di alleati “free rider”, cioè scrocconi, per l’appunto. Evidentemente non si tratta della tesi di una parte politica, ma di una esigenza molto sentita da tutta l’America, e fortemente radicata nella realtà.
Ma Trump è Trump, mica può limitarsi a dire le stesse cose che dice anche Obama. E così ha rincarato la dose, alla sua maniera. Se la Russia invade un Paese alleato, gli USA interverranno a difenderlo? Dipende. Bisognerà vedere se quel paese stava pagando o meno la giusta contribuzione alle spese militari dell’alleanza. L’art.5 della NATO come una clausola dell’affitto della sala da ballo dell’Hilton di Roanoke.
C’è una nuova retorica in tutto questo. Nuova ma anche molto antica. Il cambio di rotta che Trump va promettendo è sintetizzato nel suo slogan “America First”: prima l’America, badiamo a metterci al riparo noialtri, occuparci degli altri è un lusso che non ci possiamo più permettere. La priorità è spendere di meno; e per farlo potremo rivedere le vecchie alleanze – a cominciare dalla NATO - ed accordarci con Putin, con Erdogan, con chi ci farà comodo.
“America First” è uno slogan storico. Fu lo slogan della destra che nell’estate del 1940 si coagulò attorno al movimento di opinione America First Committee, lanciato da alcuni studenti di Yale, che si opponeva all’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, proponendo come alternativa la negoziazione di un patto di non belligeranza con la Germania nazista. Il suo portavoce fu Charles Lindbergh, il pioniere dell’aviazione che nel 1927 era divenuto “l’uomo più famoso del mondo” compiendo in solitario la prima trasvolata atlantica (aveva anche spiccate simpatie antisemite, sulle quali Philip Roth ha basato nel 2004 la trama del suo “Il complotto contro l’America” in cui si fantastica che egli nel 1940, con lo slogan “votate Lindbergh o votate per la guerra”, vinca le elezioni presidenziali contro Roosevelt, e porti Gli Stati Uniti su posizioni filonaziste).
L’isolazionismo degli “America First” fu tacitato dai fatti di Pearl Harbor; ma rialzò la testa nel 1952, agli albori della Guerra Fredda. In quell’anno il senatore Robert Taft si candidò alle primarie presidenziali repubblicane con una campagna nella quale recriminava non solo contro l’avvenuto coinvolgimento degli USA nel secondo conflitto mondiale, ma anche contro il loro perdurante impegno nel dopoguerra europeo, e contro la stessa istituzione della NATO. “Quello che dovremmo attrezzarci a difendere sono le nostre coste, non gli ideali democratici in terra straniera”, diceva Taft; e accusava gli USA di agire come se si fossero messi in testa “di essere una specie di semidio e di Babbo Natale, in grado di risolvere i problemi del mondo”.
La candidatura repubblicana andò invece ad Ike Eisenhower, che oltre ad essere stato il comandante in capo delle forze alleate in Europa nei giorni dello sbarco in Normandia era poi stato, per l’appunto, il primo comandante supremo della neonata NATO. Egli credeva nel sostegno alla ricostruzione europea in funzione anticomunista, che l’amministrazione democratica di Henry Truman aveva avviato con il Piano Marshall. E per la stessa ragione pose fine non solo alla tradizione isolazionista dei repubblicani in ambito militare, ma anche a quella in ambito commerciale.
I Repubblicani erano nati come il partito di Lincoln; e Lincoln era un convinto protezionista, come del resto lo furono tutti i nordisti. Il Sud si era ribellato all’Unione più per via del protezionismo che per la disputa sulla schiavitù. Si trattava di un protezionismo a senso unico, a vantaggio di una parte del Paese e a spese dell’altra. Le barriere doganali ostacolavano l'importazione di prodotti finiti dall’Europa tutelando le industrie del Nord, ma non quella delle materie prime, che avrebbe tutelato l’agricoltura del Sud. Da allora e fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il protezionismo aveva sempre fatto parte del programma del Partito Repubblicano.
Probabilmente non è un caso che ad abbandonare questa visione fu un presidente la cui appartenenza politica fino alla sua candidatura era stata tutt’altro che chiara, tanto che lo stesso Truman aveva tentato di convincerlo a candidarsi per succedergli alla Casa Bianca come Democratico. Eisenhower impose la nuova priorità di incentivare il commercio non solo con gli alleati acquisiti, ma anche con quelli potenziali, persino con i Paesi del Terzo Mondo, per attrarli nella sfera di influenza atlantica prima che precipitassero in quella sovietica.
La stessa fazione dei repubblicani che si oppose alla creazione della NATO uscì sconfitta anche nella difesa delle vecchie politiche protezioniste. E da allora tutto ciò che l’America ha fatto per incentivare il free trade è stato più o meno condiviso da Democratici e da Repubblicani.
Il che vale anche per le cose fatte nell’ultimo quarto di secolo ed ora tanto avversate da Trump: dal NAFTA, il trattato di libero commercio nordamericano e quindi principalmente con il Messico, e dall'ammissione della Cina nel WTO, voluti negli anni Novanta dalla amministrazione di Bill Clinton ma votati da oltre i tre quarti dei parlamentari Repubblicani al Congresso, fino al recente TPP, l’alleanza commerciale “Pacifica”, con Giappone, Vietnam, Australia e altri paesi da conquistare contendendoli all’influenza della Cina – un trattato sul quale i negoziati si sono recentemente conclusi e che in questi giorni sta facendo discutere più che altro per via del timore diffuso che faccia perdere altri posti di lavoro “americani” (tant’è che Hillary Clinton, la quale da Segretario di Stato lo sostenne, ora tentenna dicendo che la versione che ne è uscita non la convince ed alcune cose andranno rinegoziate).
Ora la paura degli effetti della globalizzazione porta a ridiscutere tutto, anche i fondamentali. Il punto non è, beninteso, se difendersi o meno dalla concorrenza della Cina e di altre potenze commerciali emergenti. Il punto è se farlo combattendo con le stesse armi e con le stesse regole già utilizzate in questi anni, o se farlo rovesciando tutto.
Andate a chiederlo agli abitanti di Akron, la cittadina dell’Ohio dove nacquero sia la Goodyear che la Firestone (perciò soprannominata Rubber City, la città della gomma). I posti di lavoro in quella zona sono ancora quasi tutti legati all’industria degli pneumatici. Per gli imprenditori e per gli operai di questo settore Obama divenne quasi un eroe quando nel settembre del 2009 scatenò ed affrontò le ire di Pechino per aver imposto nuovi dazi triennali sulle importazioni di pneumatici cinesi per un totale di 1,8 miliardi di dollari, accogliendo le richieste del sindacato United Steelworkers. Il governo cinese denunziò quella misura al WTO, ma il ricorso venne rigettato riconoscendo che gli Usa avevano agito per legittima difesa contro una operazione di concorrenza sleale sottocosto da parte dei cinesi. La Cina nel 2011 reagì innalzando una barriera doganale “clonata” da quella americana che l’aveva spuntata al WTO: dazi fino al 21,5% su Suv e vetture di grandi dimensioni prodotte in America, ufficialmente per controbilanciare aiuti di Stato che avrebbero dato all’industria automobilistica la possibilità di praticare il dumping. E così, nel bel mezzo, guarda caso, della campagna per la rielezione quattro anni fa, l'Amministrazione Obama presentò un ricorso anti-dazi al WTO; e due anni dopo, nel 2014, si è vista dare ragione. Per i cinesi non c’è stata “legittima difesa” ma solo una ritorsione non consentita dalle regole del commercio internazionale.
È questo il sistema dal quale Trump propone di uscire quando minaccia di imporre sanzioni economiche alle aziende americane che danno lavoro in Messico anziché negli USA. Dice che se il WTO gli desse torto vorrà dire che anche la partecipazione degli USA a questa istituzione si potrà rivedere. Possiamo uscire dalla NATO, possiamo uscire dal WTO, possiamo uscire un po’ da tutto. I voti si cercano giocando sulla voglia di rottamare un po’ tutto, e di semplificare un po’ tutto. Magari fosse così facile. Magari “riportare a casa i posti di lavoro perduti” fosse semplice come farsi fare un bello sconto sull’affitto della sala di un hotel.