new hampshire

Quando, ormai più di due anni fa, si fece chiara l’intenzione di Hillary Clinton di ritentare la candidatura alla Casa Bianca, gran parte dei media mondiali ricadde nel consueto errore di accogliere gioiosamente come più o meno scontata la lieta novella del “primo presidente donna” (e di lì a poco anche primo presidente nonna).

A voler vedere le cose con un minimo di obiettività, il successo di questo secondo tentativo era tutto fuorchè scontato. L’America stava e sta vivendo una profonda crisi di rigetto nei confronti della “vecchia politica”, e Hillary è una perfetta esponente proprio di quel mondo: con tutto l’apparato di scheletro nell’armadio, di compromessi cinici e spesso poco nobili, di menzogne sotto giuramento. La perplessità che non potei non esprimere all’epoca non sta trovando che conferme.

Il voto della settimana scorsa in Iowa – dove non si tengono elezioni primarie, ma caucus che somigliano più ai nostri congressi di partito – con quel sostanziale, umiliante pareggio al 49 virgola-qualcosa per cento tra la ex First Lady ed ex Madame Secretary ed il vecchio senatore socialista del Vermont Bernie Sanders, già non suonava affatto bene. Ma il voto di ieri alle prime vere primarie, quelle del New Hampshire, suona decisamente peggio. Che Hillary sarebbe stata in questo caso sconfitta da Sanders, era ormai scontato sondaggi alla mano; assai meno era che lo sarebbe stata in misura tanto umiliante, un misero 34% laddove Sanders sfiora trionfalmente il 60. Una batosta che pesa moltissimo anche perché per evitarla Hillary si era giocata tutto: aveva speso un fiume di soldi, aveva messo in mobilitato un esercito di volontari, aveva messo in campo il marito e la figlia e si era giocata anche qualche prestigioso endorsement. Visto l’esito disastroso, viene da chiedersi come sarebbe andata se non ci fosse stato questo spiegamento di forze da parte della Clinton Machine.

È pur vero che negli Stati nei quali si terranno le prossime primarie i sondaggi danno Hillary in posizione decisamente migliore (Sanders, oltretutto, ieri giocava quasi in casa perché lo staterello del New England dal quale proviene è confinante, e per molti versi omogeneo, con quello, altrettanto piccino, nel quale si è appena votato); ed è anche vero che è solo con le prossime votazioni che si cominceranno ad assegnare molti delegati alla Convention Nazionale. L’Iowa e il New Hampshire hanno una valenza più simbolica che aritmetica. Ma la politica non di rado si fa più con le ondate emotive che con il pallottoliere. La popolazione del New Hampshire non è un campione rappresentativo dell’elettorato statunitense – soprattutto sotto il profilo razziale, essendo quasi tutti bianchi. Ma a questo voto si guarda comunque con molta attenzione, perché si tratta di uno dei pochi casi di primarie aperte agli elettori che non sono registrati né come democratici né come repubblicani, il che, contrariamente a quanto accade nella maggioranza degli altri casi, mette al centro l’elettorato indipendente – e questo sì che crea una forte somiglianza con l’elezione generale che seguirà.

Pesa quindi come un macigno questo voto nel quale i giovani non hanno votato per Hillary, nemmeno le giovani donne.
Certo, Sanders non è Barack Obama. E’ anziano, è goffo, è poco telegenico. Non è e non può essere cool e non può diventare mainstream. Difficile credere che queste primarie possano andare per Hillary come quelle del 2008. Semmai, l’impressione che esce da queste prime votazioni è che la candidatura di Hillary, analogamente a quanto accadde quattro anni fa in campo repubblicano con quella di Mitt Romney, abbia i numeri per uscire confermata dal procedimento delle primarie, ma al contempo stia rivelando una debolezza, una mancanza di appeal, che potrebbe risultare poi fatale nell’elezione generale. A meno che…

…A meno che i repubblicani non si lascino andare al mezzo suicidio cui stiamo assistendo. Stavolta la “bolla” di Donald Trump non accenna a sgonfiarsi come era accaduto negli anni passati, quando il miliardario newyorkese si era intromesso nelle primarie presidenziali con esiti risibili. Stavolta Trump si sta confermando frontrunner. L’ansia di avere per le mani una alternativa credibile è tale che ogni repubblicano vagamente moderato che superi la soglia del 10% viene frettolosamente osannato come un messia. E’ stato così in Iowa con il giovane senatore della Florida Marco Rubio, l’“Obama repubblicano” acclamato come un quasi-vincitore nonostante si fosse piazzato solo terzo, dietro al conservatore texano Ted Cruz, il quale aveva vinto quella prima votazione, e dietro allo stesso Trump - ma ora in New Hampshire Rubio ha riportato in un risultato molto deludente, forse anche per via di una performance molto modesta nell’ultimo dibattito televisivo. Ed è così in queste ore per l’ex governatore dell’Ohio John Kasich, il quale esce dal voto in New Hampshire con un modesto 17% (Trump ha portato a casa un buon 36), ma viene portato sugli scudi come un vincitore morale.

Kasich è un politico navigato e capace, ha ben governato il suo (elettoralmente cruciale) Stato abbattendo la disoccupazione dal 9,7 al 4,2% e risanando le finanze pubbliche (da un debito di 2 miliardi di dollari a un disavanzo di 8 miliardi). È l’uomo di governo “problem solver” che, in tempi normali, potrebbe nutrire serie ambizioni presidenziali. Ma è ormai piuttosto evidente che questi non sono affatto tempi normali. Le dinamiche tradizionali stanno saltando sotto la pressione di una ondata di populismo che rende tutto imprevedibile. Inoltre Kasich, che pure non è del tutto sconosciuto all’elettore medio fori dall’Ohio anche perché una decina di anni fa conduceva una sua trasmissione su Fox News, è pur sempre un personaggio sconosciuto a molti (la CNN gli chiede in queste ore come si pronuncia il suo cognome - che si pronuncia “keisik”, per la cronaca). E che non dispone di mezzi adeguati: in pratica si è giocato tutto per fare bella figura lì in New Hampshire, e c’è riuscito; ma è arduo che questo piccolo successo gli frutti finanze ed organizzazione sufficienti a proseguire in un gioco che, ora, si farà veramente duro.

Ora come ora la situazione parrebbe speculare a quella delle primarie repubblicane di quattro anni fa: in quella occasione fu l’ala più destrorsa e movimentista a mancare la candidatura a causa di una frammentazione fra troppi aspiranti (Newt Gingrich, Rick Rantorum, Rick Perry…), tra i quali, in un campo ostinatamente sovraffollato, non emerse nessuno, con conseguente dispersione di voti e finanziamenti: un esponente dell’ala più moderata ed establishmentarian come Romney strappò la candidatura principalmente grazie a quella frammentazione dell’ala avversaria. Ora accade qualcosa di analogo e simmetrico: un sovraffollamento di aspiranti candidati più “tradizionali” sta facendo il gioco della “anomalia” Trump. Ne riparliamo fra dieci giorni, in South Carolina.