Responsabilità e comunità: la splendida lezione di John McCain
Istituzioni ed economia
John McCain che rifiuta di lasciare il campo di prigionia in Vietnam se non lo avessero potuto seguire i suoi compagni è lo stesso John McCain che nel 2008, candidato alla presidenza degli Stati Uniti, rimprovera in diretta TV alcuni suoi sostenitori che esprimevano in maniera troppo radicale la loro paura per l’afroamericano Barack Obama: non dovete temerlo, è un brav’uomo (a decent man), ci dividono le idee, non l’amore per il nostro paese.
McCain era perfettamente consapevole - glielo si legge in faccia - del prezzo che avrebbe pagato per quella difesa d’ufficio del suo avversario. Evitare di soffiare sul fuoco della paura per l’uomo nero, e anzi sforzarsi di ripristinare la civiltà nel dibattito pubblico, gli sarebbe costata l’elezione, ma avrebbe salvato il suo paese dal baratro nel quale sarebbe scivolato otto anni dopo, quando il tycoon candidato del suo stesso partito avrebbe vinto non promettendo il dovuto rispetto, ma la galera per la sua avversaria. Spargendo a piene mani odio e risentimento, non fiducia e amore per il suo popolo e i suoi valori fondativi necessariamente comuni a tutti gli americani.
Avrebbe potuto fare diversamente - aveva accanto a sé una candidata alla vicepresidenza, Sarah Palin, perfettamente rodata a questo scopo - avrebbe potuto contrastare un Barack Obama che era riuscito (sono parole dello stesso McCain nel suo splendido Concession Speech) a dare “ispirazione alla speranza di così tanti milioni di americani, che credevano erroneamente di essere così poco in gioco o di avere una influenza minima sull’elezione di un presidente americano” appellandosi alla paura, alla bigotry, alla guerra civile. Non lo ha fatto e ne ha pagato il prezzo, ma ha salvaguardato il valore - per usare sempre le sue parole nella stessa circostanza - della "lunga strada percorsa dalle antiche ingiustizie che un tempo macchiavano la reputazione della nazione e che negavano ad alcuni americani la completa benedizione del suo popolo".
Allo stesso modo John McCain - che se ne è andato stanotte sconfitto da un cancro al cervello - era consapevole di quello a cui andava incontro rifiutando di abbandonare Hanoi da solo: è rimasto prigioniero e ha subito torture e maltrattamenti da parte dei suoi carcerieri dal 1968 al 1973.
C’è un’altra faccia del Novecento sanguinoso e orrendo che ci siamo lasciati volentieri alle spalle, ed è fatta di uomini che sapevano riconoscere le responsabilità, che non le fuggivano, anzi le caricavano a tonnellate sulle proprie spalle, costi quel che costi. Che sapevano che il ruolo di un politico e il senso della leadership non è quello di seguire gli umori del popolo ma di indirizzarli, guidarli al senso di responsabilità, alla costruzione di una comunità e non alla sua distruzione. Di contrastarli tenacemente, quando è il caso. Non di farsi portare in trionfo dal popolo, ma di suggerirgli la strada da percorrere.
John McCain forse è stato l’ultimo di quegli uomini. Di lui scriverà ancora Alessandro Tapparini nei prossimi giorni su queste pagine, e nessuno meglio di lui potrà restituire il senso della storia e della vita del senatore scomparso. Intanto ascoltate il suo Concession Speech, il discorso in Arizona la sera dell’elezione di Obama, ascoltatelo spesso, leggetene la traduzione in italiano. È una meravigliosa medicina contro tutto il brutto del nostro tempo. Riposi in pace.