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Luca Ricolfi, nel commentare ieri sul Messaggero la sconfitta in Toscana del PD, si affida a una "provocazione": il PD da tempo si sarebbe trasformato da partito popolare in partito radicale di massa, “un obiettivo che ad Emma Bonino, con o senza Pannella, non è mai riuscito”.

L’editorialista nella sua “provocazione” ricorre allo stesso paradigma di cui si servì Augusto Del Noce nella seconda metà degli anni 70 per metabolizzare la sconfitta nei referendum abrogativi del divorzio (59% di No all’abrogazione della legge Fortuna) e della legge sull’aborto (quasi il 70%), subita non solo dalla DC ma dalla Chiesa italiana.

Si potrebbe rispondere che quello fu il momento di massima “popolarità” del PCI, non solo perché il popolo comunista fu determinante in quelle vittorie (cui concorsero per altro molti milioni di cattolici) ma perché, grazie ad esse, nelle successive elezioni politiche e amministrative passò in breve tempo da poco più di un quarto a oltre un terzo dei voti dell’elettorato italiano, riuscendo a divenire in qualche occasione il primo partito. Questo avvenne perché i diritti civili non erano questioni borghesi ed elitarie ma grandi questioni sociali, che colpivano, come sempre avviene, innanzitutto le classi sociali più deboli: centinaia di migliaia di fuorilegge del matrimonio e, come non cessava di denunciare l’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno centinaia di migliaia di donne costrette a ricorre all’aborto clandestino, un massacro di massa che la politica e la Chiesa si ostinavano a ignorare.

Ma è giusto usare lo stesso paradigma riguardante un PCI, vittorioso allora soi malgré grazie a una battaglia radicale, al PD sconfitto di oggi? Forse la spiegazione di questa sconfitta non sta nell’aver anteposto i diritti civili di alcune minoranze ai diritti sociali delle masse popolari ma nell’essersi rinchiusi nella gestione del potere e nella occupazione partitocratica delle istituzioni, scambiando - Il PD non meno dei sindacati – i diritti sociali con la difesa di alcuni interessi corporativi e clientelari, accantonando e ignorando il rapporto Cottarelli e non mettendo mano alla spesa pubblica improduttiva; nell’aver ignorato i contraccolpi e le nuove povertà indotte da una globalizzazione non governata; nell’aver preteso dall’Europa, esattamente come fanno i nuovi governanti, maggiore flessibilità e quindi perseguendo nei fatti non la riduzione ma l’aumento del debito pubblico; nell’essersi rinchiusi infine non solo nei privilegi della casta politica ma nell’equilibrio delle tante caste che impediscono alla democrazia italiana di funzionare nell’attuazione della nostra costituzione.

Sono gli stessi vizi che denunciammo con largo anticipo quando Veltroni contrabbandava la nascita del PD come il necessario incontro di tutte le culture riformatrici, quella liberale e quella socialista, quella radicale e quella ambientalista, quella laica e quella cattolica mentre nella realtà nasceva solo dalla somma dei due apparati di potere, quello post-comunista e quello post-democristiano, che precludevano ogni altro apporto, ogni altro progetto di riforma e di alternativa.

Visto che Ricolfi si è affidato, come lui stesso ha dichiarato, a una "provocazione", gliene proporrei anch’io una, se avessi la possibilità di confrontarmi con lui. Cosa significa oggi essere un partito popolare? È popolare fingere di ignorare che il debito pubblico è innanzitutto un problema e una responsabilità nostra, non dell’Europa e che da esso dipende in grande misura il soffocamento della nostra economia? È popolare far credere che, uscendo dall’euro, i nostri problemi sarebbero risolti mentre è altamente probabile che si aprirebbe la strada argentina del default che colpirebbe innanzitutto i pensionati e i ceti con meno reddito? È una politica popolare quella che, anziché rafforzare l’integrazione politica, economica e monetaria dell’UE, si preoccupa di metterla in crisi lasciando l’Italia e gli altri paesi europei a competere con giganti che si chiamano USA, Cina, Russia, India? Io credo che queste scelte siano profondamente antipopolari e che sia necessario combatterle con intransigenza e chiarezza, correndo il rischio dell’impopolarità ma cercando di opporre ad esse un argine, una linea di resistenza e di alternativa.

Infine una risposta è doverosa. Perché sia Pannella sia la Bonino, e con loro tutti i radicali, non siamo riusciti a creare un partito radicale di massa? Sarebbe facile rispondere: perché la borghesia italiana, la grande editoria, chi disponeva del controllo dei mezzi di comunicazione di massa e, con poche eccezioni gli intellettuali italiani, come oggi Ricolfi, hanno sempre preferito legittimare come oppositori alternativi ai partiti di potere le risposte populiste che sono venute via via dalla Lega Nord, da Di Pietro e dall’Italia dei valori, fino a Grillo e ai 5 Stelle.

Ma c’è una ragione più semplice e tutta nostra. Bastava che anche noi scegliessimo la strada dello sfascismo o che, nella lotta contro l’occupazione partitocratica dello Stato e delle istituzioni percorressimo, anche noi, la scorciatoia della via giudiziaria alla democrazia e al socialismo. Non lo abbiamo fatto perché, avendo imparato a coniugare il nostro libertarismo con la democrazia liberale e lo Stato di diritto, sappiamo che lo sfascismo produce solo macerie e dalle macerie è impossibile far crescere la democrazia, possono derivare solo autoritarismo, nazionalismo e fascismo.

E perché le scorciatoie giustizialiste possono creare poteri eccezionali e nuovi privilegi, produrre processi “monstre”, non possono risolvere problemi che chiedono invece profonde riforme e un nuovo costume politico, come dimostra il crollo ulteriore e la maggiore diffusione che hanno conosciuto in questi anni il malgoverno e la corruzione.