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È ormai opinione diffusa che Matteo Salvini abbia preso il comando dell’incipiente azione di governo, “bruciando”, allo spegnersi dei semafori, quel Movimento 5 Stelle che pure partiva in pole position. Salvini ha occupato stabilmente le prime pagine dei giornali e le tribune social, rilanciando proposte, dal condono fiscale alla rimozione del tetto all’uso dei contanti, che esulano dal recinto delle competenze del ministro degli interni. Ovviamente, però, la decisione più incisiva e controversa è stata quella di bloccare in mare la nave Aquarius, promuovendo al contempo una campagna mediatica con l’hashtag #chiudiamoiporti.

La mia opinione è che l’iniziativa di Salvini non sia stata estemporanea, ma faccia piuttosto parte di una strategia più ampia che ricalca quella ideata dall’ex Chief Strategist della Casa Bianca Steve Bannon e adottata, appena un anno fa, dal Presidente statunitense Donald Trump.
Il 20 gennaio 2017 Trump inaugurò la sua presidenza; sette giorni dopo firmò l’Ordine Esecutivo passato alla storia come “(Muslim) travel ban”, che sospendeva il programma di accoglienza dei rifugiati e l’accesso al territorio americano da parte dei cittadini di Iraq, Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Allo stesso modo, la vicenda dell’Aquarius è cominciata il 10 giugno, appena quattro giorni dopo la fiducia della Camera al governo Conte.

Insomma, sia Trump che Salvini, nei primissimi giorni di governo, hanno deciso di adottare immediatamente un provvedimento muscolare sui temi dell’immigrazione.

È interessante notare come il trait d’union fra Trump e Salvini potrebbe essere proprio Bannon, che, dopo essere stato allontanato dal governo statunitense, ha incontrato Salvini a Milano l’8 marzo 2018, 4 giorni dopo le elezioni, ed è poi tornato in Italia a maggio, sempre spingendo per la formazione di un governo Lega-M5S.

La mia modesta proposta, alle persone che si oppongono, fuori ma anche dentro al perimetro di governo, alla linea oltranzista di Salvini, è quella di usare l’esempio del travel ban americano per studiare i motivi di chi lo ha ideato e le reazioni che ha ingenerato nella società civile e nel sistema politico. Avere un “case study” cui fare riferimento può infatti aiutare a creare in Italia un fronte di opposizione più efficace e accorto, che non cada nei tranelli del Bannon di turno.

A questo proposito, mi pare sia importante rileggere (con i dovuti caveat circa l’affidabilità dell’autore) le pagine di Fire and Fury (Micheal Wolff, 2018) che riguardano i primi giorni dell’amministrazione Trump e la nascita del travel ban. Wolff racconta che Bannon e Rupert Murdoch erano convinti che un presidente statunitense avesse a disposizione al massimo sei mesi per avere un impatto sul pubblico e definire l’agenda politica, prima di rimanere invariabilmente invischiato nelle battaglie contro l’opposizione. Da qui l’urgenza che animava Bannon durante i primissimi giorni di governo. Egli desiderava infatti condurre una sorta di blitzkrieg, lanciando immediatamente un’operazione “shock and awe” che avesse per oggetto una delle fondamentali promesse della campagna di Trump: la lotta all’immigrazione.

L’adozione del travel ban causò un’ondata emotiva di proteste e indignazione non dissimile da quella scatenata in Italia (seppur su una scala molto più piccola) dalle decisioni di Salvini sull’Aquarius. Il punto è che l’obiettivo di Bannon, secondo l’autore di Fire and Fury, era proprio questo: tracciare una linea netta di demarcazione tra l’America di Trump e quella dei “liberals”, tra la Casa Bianca di Trump e quella delle amministrazioni precedenti. E poi far impazzire i democratici, esporne l’ipocrisia, trascinarli a sinistra estremizzandone le posizioni.

Forte dell’esperienza a Breitbart, Bannon poteva prevedere l’indignazione che il travel ban avrebbe scatenato ed era ben felice di utilizzarla per far rimanere Trump al centro della scena e investire nello sviluppo di una fantomatica frattura “pro-contro immigrazione” nella società americana.

A mio parere, mutatis mutandis, gli obiettivi di Salvini possono essere considerati simili a quelli di Trump e Bannon. E simili sono anche le sfide che deve affrontare l’opposizione alla linea salviniana: evitare di essere schiacciata su caricaturali posizioni “no-border”; affrontare le accuse di ipocrisia facendo anche, ove opportuno, un po’ di auto-critica; mantenere saldi i propri valori di riferimento cercando di coniugare idealismo e realismo; non cedere né all’isteria manichea né all’indifferenza complice.

E poi – ma questo è ancora più difficile – provare a riappropriarsi della capacità di dettare l’agenda, spostando la conversazione su temi come il lavoro, la lotta alla povertà, lo sviluppo sostenibile. Perché un Paese in cui si dibatte ossessivamente di immigrazione, con argomentazioni quasi solo emotive e pochissima attenzione all’analisi fattuale, è un Paese condannato a valutare male i propri interessi e rassegnato a spostare l’asse del proprio discorso pubblico, quasi per inerzia, sempre più a destra.