capone catene sito

Nel programma del centrodestra svettava, come punto fondante dell’alleanza, la flat tax: una unica aliquota per tutti i livelli di reddito (seppur diversa nella quantificazione). Tralasciamo il fatto che la flat tax in senso stretto sarebbe incostituzionale. Tralasciamo che dubbi permarrebbero anche in presenza di correzioni quali una deduzione fissa per i redditi bassi che renderebbe progressiva, almeno rispetto ai primi scaglioni, l’aliquota effettiva pagata dai cittadini.

Parliamo invece della vera notizia, come annunciata e poi parzialmente smentita da esponenti della Lega (il prof. Bagnai, in particolare): nel 2019 niente intervento sull’IRPEF, si farà la flat tax per le imprese. Aldilà del constatare il primo dietrofront, l’opposizione (a cominciare da Luigi Marattin del PD) ha spiegato immediatamente come la flat tax per le imprese ci sia già. L'IRES (Imposta sui redditi delle società) è flat da decenni, dal 1973. ll governo Renzi ha esteso il sistema alle società di persone (IRI, dal 2018, incentivando il reinvestimento nell’attività d’impresa degli utili), ha abbassato l'aliquota dal 27,5% al 24% ed aveva messo già in cantiere la discesa al 22%. L’IRAP, che ha una base imponibile diversa (non solo gli utili) è anch’essa flat (circa il 4%).

Cosa voleva dire, dunque, Bagnai? Dileggiarlo forse non è una grande idea, seppure detta così come l’ha espressa il professore pescarese, la flat tax per le imprese è una truffa comunicativa. Si riferiva forse all'abbassamento intrinseco dovuto all'applicazione di quanto scritto nel contratto del cambiamento: "il nuovo regime fiscale si caratterizza come segue: due aliquote fisse al 15% e al 20% per persone fisiche, partite IVA, imprese e famiglie".

Andiamo a vedere cosa comporterebbe: l'abbassamento è abbastanza rilevante se al 15%, molto meno se al 20%. Poiché il gettito IRES è circa 35 mld, si stratta di quasi 0,75 punti di PIL, 13 miliardi, se al 15%. Circa 6 miliardi se al 20%. Sarebbe abbastanza ridicolo, invece, mettere due aliquote diversificate per scaglioni (si parlava di 80 mila € come soglia). Una mossa del genere andrebbe certamente nell’ottica della narrazione leghista e pentastellata, legata al “piccolo e bello” e alla glorificazione della piccola e media impresa. Ma poiché i dati ci dicono che il problema della competitività si risolve con le maggiori dimensioni d’impresa, una proposta del genere, disincentivando ulteriormente le maggiori dimensioni delle imprese, creerebbe un terreno di gioco non livellato e, parallelamente, assisteremmo alla nascita di imprese di comodo utili solo a rimanere sotto la soglia (come un tempo per rimanere sotto la soglia dei 15 dipendenti sancita dall’art. 18). Frizioni che non fanno bene al mercato.

In tutto questo, peraltro, le imprese e Confindustria chiedono a gran voce la cancellazione di una tassa ben più fastidiosa, l’IRAP. Il gettito IRAP, di circa 23 miliardi, afferisce agli enti pubblici per quasi 10. Per le imprese, dunque, l’IRAP pesa circa 13 miliardi. I governi della XVII legislatura avevano pensato di unificare le due imposte, garantendo semplificazione. Il governo Renzi aveva eliminato, dalle voci che componevano l’imponibile dell’IRAP, il costo del lavoro. Un balzello davvero incomprensibile. Differenze di imponibile tra le due imposte permangono, unificarle significherebbe rendere più prevedibile e gestibile, anche per gli investitori stranieri, un investimento in Italia.

Tirando le somme, l’IRAP ha gettito per circa 13 miliardi a carico delle imprese, l’IRES circa 36. L’IRI è prevista avere un gettito di circa 2 miliardi a regime, con una perdita di gettito IRPEF di circa 3 (utili d’impresa che non vengono attribuiti ai soci ma rimangono nella società di persone o ditta individuale), con un minor gettito di circa 1 miliardo a regime. Il totale, fa circa 50 miliardi nel 2017. Il monte, inclusa l’IRAP relativa alla PA, era circa 95 miliardi nel 2008. Un crollo verticale dovuto a riduzioni di aliquota o perimetro e, soprattutto, alla crisi.

Durante la XVII legislatura è stata apportata un’altra modifica alla tassazione afferente, direttamente o indirettamente, le società. I dividendi erogati dalle società di capitali venivano precedentemente tassati in due diverse modalità: imposta sostitutiva al 26% per le partecipazioni non qualificate (tipicamente inferiori al 20%), secondo gli scaglioni IRPEF per partecipazioni qualificate. Essendo stati già parzialmente tassati, i dividendi contribuivano all’imponibile IRPEF non nella misura del 100% ma in percentuali differenti che sono via via aumentate nel tempo al decrescere dell’aliquota IRES (per evitare arbitraggi tra forme di compensazione e forme societarie diverse). Dal 2018, la prima disciplina viene estesa anche alla seconda fattispecie. Questo, a differenza degli scaglioni diversi per l’IRES trattati sopra, colpisce proprio i piccoli imprenditori titolari di società di capitali. L’aliquota del 26% relativa all’imposta sostitutiva è peggiorativa per chi rimaneva negli scaglioni IRPEF più bassi. D’altra parte, va nella giusta direzione evitando asimmetrie, come accennato sopra.

Ultimo ma non ultimo, nel decreto Salva Italia è comparso l’ACE, una agevolazione per le imprese che accantonano utili a capitale proprio. Una interessantissima forma (seppur non particolarmente rilevante in termini di stanziamento) per garantire reinvestimento.

Le tasse sulle imprese non sono neutre: il disegno di una tassa non è solo una questione di gettito ma anche una questione di efficienza e una questione di incentivi all’elusione/evasione fiscale. La riduzione complessiva del carico fiscale sulle imprese va certamente nel verso giusto, ma inutile negare che andrebbe compreso quale sia l’obiettivo, quale la ricomposizione del quadro complessivo di fiscalità, quali gli spazi legati a indebitamento dello stato (aumentare il deficit e aizzare lo spread per tagliare le tasse alle imprese è probabilmente una manovra a somma negativa per le imprese stesse, date le peggiorate condizioni di costo e accesso al credito).

Se davvero c’è la volontà di ricercare una rivoluzione della fiscalità, credo che sia il caso che tutti dicano la propria e che le opposizioni si muovano subito proponendo soluzioni efficaci, rilevanti, dirompenti e razionali. Il buon senso ci dice che, a monte di tutto, vi è l’unificazione di IRAP e IRES. Il difetto principale è la scarsa comunicabilità di una manovra tecnica che diluirebbe l’effetto politico dell’aliquota IRES bassa. Dato il monte del gettito delle due, circa 50 miliardi, una volta accorpate, ci vorrebbero circa 20 miliardi per portare l’aliquota unica al 20%. Più di un punto di PIL. Arrivare a un 20% complessivo renderebbe l’Italia mediamente conveniente in termini di corporate tax rispetto ai partner europei (Germania 30%, Francia 33%, Uk 19%, US 27%). Non sufficiente a renderci competitivi, dati i costi indiretti burocratici e legali, ma comunque un passo avanti. Un taglio del genere genererebbe, ceteris paribus, un effetto di emersione.

Ma tranquilli, nessun effetto Laffer: l’aumento di imponibile non sarebbe assolutamente sufficiente a compensare la perdita di gettito subita. Tra le possibilità di finanziamento ce ne è una che attingerebbe allo stesso bacino: gli incentivi alle imprese. Lo scambio "meno incentivi-meno tasse" potrebbe essere un buon compromesso, soprattutto se aggredissimo gli incentivi che portano con se esternalità negative, come quelli all’autotrasporto su gomma. Il Piano Giavazzi aveva previsto 10 miliardi di tagli a medio lungo termine, con costi politici rilevanti, pescati tra gli incentivi alle imprese che cubano cifre molto ampie, vicine ai 30 miliardi. Molti, peraltro, credono che il miglior modo di utilizzare tagli di questo tipo sia per abbattere il cuneo fiscale. Qui il discorso si fa più complesso e coinvolge anche il tasso di sostituzione capitale/lavoro e la desiderabilità di alcune dinamiche volte a ridurre la disoccupazione di breve termine, rispetto a interventi rivolti alla stagnazione della produttività e ai suoi effetti di lungo termine.

A voler guardare, invece, a interventi più coraggiosi e creativi, viene da pensare che un taglio ben più deciso potrebbe essere strutturato al fine di aumentare la capitalizzazione delle imprese (il problema in Italia è cronico, riduce la dimensione aziendale, mortifica l’accesso al credito, destabilizza il sistema bancario in caso di oscillazioni del ciclo) e semplificare sia per le piccole che per le grandi imprese.

Da una parte, aumentare l’imposta sostitutiva sui dividendi oggi prevista al 26%, fino a un livello da valutare, prevedendo uno strumento reddituale per il socio/lavoratore che preveda la trasparenza dell’utile societario (nessuna tassazione IRES), includendo strumenti ad hoc di contribuzione pensionistica (privata o pubblica). Ridurre il gap tra utile lordo e reddito netto del socio imprenditore migliora, da una parte, la comprensione dell’aliquota totale e, data la modalità, scoraggia l’elusione (falsa imputazione di costi) e l’evasione. Un livello complessivo vicino all’ultima aliquota IRPEF (43%) rappresenterebbe, tutto compreso, un taglio di circa 5 punti percentuali (IRES+IRAP+Imposta sostitutiva circa 47.7%).

Dall’altra, sarebbe fondamentale un taglio rilevante per chi reinveste a capitale gli utili. La combinazione di queste due cose, con l’allargamento della trasparenza a tutti i soci, potrebbe tradursi, spingendoci oltre, in una abolizione delle imposte sulle imprese. La perdita di gettito sarebbe generata da quella parte di utili che rimangono a disposizione del reinvestimento/capitalizzazione delle imprese, mentre la tassazione sarebbe recuperata una volta che questi fluiscano verso i soci. Sarebbe necessaria, ovviamente, una forte penalizzazione fiscale per le spese indeducibili e altri correttivi, tra cui una imposta unica sostitutiva per soci (aziende o privati) residenti fuori dal territorio nazionale. Tra gli effetti positivi, da menzionare l’aumento degli investimenti, la ripartenza della produttività, l’abbattimento dell’evasione IVA.

In ogni caso, aldilà di visioni particolarmente alternative, molte cose si possono fare. Iniziare dalla flat tax per le imprese non è, a ben vedere, un grande inizio.