C'era una volta l'imposta universale
Diritto e libertà
Gli interventi sul fisco contenuti nella bozza di Legge di Bilancio 2017 confermano un trend che appare inarrestabile: lo svuotamento dell’Irpef progressiva, con perdita dei residui tratti di generalità e personalità dell’imposta. La morte dell’idea, illuministica, dell’universalità dell’imposta sul reddito non può essere imputata al Governo in carica, che tuttavia, con la sua scoppiettante “fiscalità dei bonus”, si sta comportando come uno zelante esecutore testamentario.
Basta ricordare quanto è accaduto negli ultimi anni. L’elenco dei regimi sostitutivi o di esenzione già da tempo operanti (sugli interessi, i premi o le vincite) si è via via allungato, e oggi annovera una parte dei dividendi e dei capital gains, le cedolari del settore immobiliare (canoni di locazione e plusvalenze), i redditi degli autonomi minimi e delle nuove iniziative produttive, i vouchers e i premi di produttività dei dipendenti (che si sta pensando di ampliare), mentre altri regimi sostitutivi o di esenzione si profilano all’orizzonte: quelli per i proventi della coaiddetta share economy, le rendite finanziarie sugli investimenti di lunga durata, da ultimo i redditi degli agricoltori, che la bozza di legge di bilancio 2017 vorrebbe esentare per un triennio.
L’imposta sul reddito si è insomma trasformata in un frammentario guazzabuglio di regimi di eccezione, in cui scontano aliquote progressive soltanto i redditi di lavoro dipendente e le attività economiche indipendenti. Quanto ai redditi d’impresa individuale e da partecipazione in società di persone, l’introduzione dell’“IRI” prevista della Legge di Stabilità 2017, ovvero una tassazione con l’aliquota Ires salvo conguaglio al momento del prelievo degli utili da parte dell’imprenditore o dei soci, seppur condivisibile dal punto di vista della “neutralità” della tassazione rispetto alle forme di esercizio dell’impresa, avrà i seguenti effetti: oltre a posticipare per tali soggetti – nel migliore dei casi - l’applicazione delle aliquote progressive, rischierà di tradursi nell’intestazione di atti di consumo direttamente in capo all’impresa, che pur dando luogo a costi indeducibili non sarà facile contrastare sotto il profilo dell’“elusione” della progressività.
Da un diverso punto di vista, poi, non si può non osservare che il progetto di Legge di Stabilità 2017, nell’allineare la “no tax area” dei pensionati a quella dei lavoratori dipendenti, manca l’occasione per estendere l’esenzione dei redditi di sussistenza (corollario del principio costituzionale di capacità contributiva) ad altri redditi e categorie sociali, come quella degli “autonomi”. L’imposta sul reddito è insomma “disuguale” sia verso l’alto (aliquote marginali crescenti solo per i redditi di lavoro), sia verso il basso (esenzione dei redditi minimi selettiva).
Ma come e perché è avvenuta una simile trasfigurazione del sistema universalistico di imposizione del reddito, ormai irriconoscibile rispetto all’archetipo del tributo personale progressivo sul reddito complessivo? E come si potrebbe uscire da questo stato di cose? Se a quest’ultima domanda ho tentato di rispondere in un volume di imminente pubblicazione (Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax. Prospettive per una riforma dell’imposta sul reddito, Il Mulino, 2016), le ragioni della crisi mi sembrano sintetizzabili nei seguenti punti.
Il primo è che il nostro ordinamento fiscale si trova in queste condizioni a causa di stratificazioni normative caotiche in cui è assente ogni riferimento o modello teorico. Se altri ordinamenti (come quelli dei paesi scandinavi) hanno consapevolmente adottato il modello della “dual income taxation”, ovvero un’imposta proporzionale (con unica aliquota) su tutti i capital income, e la tassazione progressiva dei redditi di lavoro, il sistema fiscale italiano è andato alla deriva, si è progressivamente disgregato, e appare ormai costellato da un insieme di regimi speciali e di eccezione, con una differenziazione di aliquote e regimi sostitutivi priva di ogni logica.
Il secondo aspetto meritevole di nota è che tali regimi sostitutivi o di esenzione configurano in molti casi microcosmi fiscali di favore, difficili da riassorbire nell’area della progressività, proprio perché ciò scontenterebbe agguerrite categorie di soggetti che – comprensibilmente – avevano fatto affidamento su quel certo regime di tassazione. La reinclusione nell’Irpef progressiva di redditi che ne sono stati esclusi darebbe cioè luogo a proteste sociali molto simili a quelle innescate da programmi di riduzione delle spese correnti. È ad esempio facile pronosticare che, al termine del triennio di esenzione dall’Irpef agricola, vi sarà una forte pressione sul legislatore per un prolungamento e, alla fine, per la stabilizzazione dell’esenzione.
Il terzo aspetto da evidenziare si collega a quanto testé osservato: può in effetti sorprendere che una così vistosa violazione del principio di equità orizzontale nella tassazione dei redditi, proiezione di quello costituzionale di uguaglianza, non abbia suscitato vibrate reazioni nell’opinione pubblica, nel ceto politico (almeno in quello che si trovava, volta per volta, all’opposizione), nei media e tra gli studiosi. E tuttavia, questo silenzio e apparente disinteresse per il tema dell’equità fiscale si spiega forse come segue: se l’esplicito inasprimento di un regime di tassazione suscita ovviamente la reazione dei contribuenti “colpiti” dalle nuove regole, al limite inducendoli a sollevare una questione di costituzionalità laddove sia ipotizzabile una violazione del principio di uguaglianza tributaria (si pensi a quanto recentemente accaduto con la cd. Robin Hood Tax sui petrolieri o con i tagli stipendiali o pensionistici, qualificati dalla Corte come misure di natura tributaria, a carico di determinate categorie di dipendenti pubblici), non vi è un’analoga reazione nel caso di alleggerimento del peso fiscale per una determinata categoria o classe sociale.
Se i beneficiari della misura di favore non possono che rallegrarsene, la restante platea di contribuenti resta tutto sommato indifferente, e del resto è assai complicato invocare l’incostituzionalità di un’agevolazione, che si traduce semmai, paradossalmente, in richieste di estensione della stessa ad altre fattispecie. L’uguaglianza, in questi casi, viene insomma utilizzata non già come argomento per chiedere una revoca dell’agevolazione concessa, ma per estenderla ad altri casi.
A ciò si aggiunga che il rapporto tra i singoli e lo Stato viene vissuto come una relazione individuale, in cui ciascuno cerca di massimizzare il proprio interesse, senza quindi dolersi del fatto che ad altri contribuenti siano stati riconosciuti regimi di favore, se non al limite anelando allo stesso trattamento. L’imposta non è percepita come un “debito collettivo” (del resto giuridicamente non lo è, se non nei tributi di ripartizione oggi scomparsi), dunque lo sgravio d’imposta ottenuto da altre categorie è guardato al limite con invidia, senza tuttavia suscitare una forte reazione di protesta sociale, come ci si potrebbe aspettare vista l’importanza dei valori in gioco (l’uguaglianza – tributaria – dei cittadini di fronte alla legge). Se l’opinione pubblica è assai sensibile al fenomeno dell’evasione fiscale, lo è molto meno quando la legge tributaria ritaglia regimi di eccezione e di favore nei confronti di ristrette cerchie di consociati.
C’è infine un ulteriore ordine di considerazioni che contribuisce almeno in parte a spiegare una legislazione casistica e “disuguale” altrimenti incomprensibile: il fatto che la maggior parte dei regimi di eccezione ha in fondo, a sua volta, una giustificazione, per quanto perversa, potendo essere presentata quale “ipercorrettivo” a una situazione di squilibrio uguale e contraria. I tanti microsistemi fiscali di risulta, in questo modo, si reggono su un funambolico gioco di pesi e contrappesi, su distorsioni la cui ragion d’essere è rimediare ad altre distorsioni di segno opposto: e così, per fare qualche esempio, la tassazione sostitutiva dei rendimenti finanziari si giustifica in parte con la loro tassazione al lordo dell’inflazione e dei costi di produzione, in cui il “beneficio” della proporzionalità compensa il “maleficio” di una tassazione al lordo; la mancata previsione di una “no tax area” per i lavoratori autonomi e gli imprenditori trova contropartita in una tacita presunzione di infedeltà fiscale; le cedolari del settore immobiliare sottendono un patto rispetto a un settore a elevato rischio di evasione, che si blandisce con aliquote più miti, e via discorrendo.
Al fondo di tutto, vi è un cronico deficit progettuale, e una crescente incapacità del legislatore italiano a immaginare una riforma strutturale basata su una qualche idea di tax design, che viene invece surrogata da logiche interventiste emergenziali o ispirate a ragioni elettorali: in questo, la “fiscalità dei bonus” renziana appare in perfetta continuità con la tradizione.