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La presentazione del disegno di legge di stabilità per il 2016, pochi giorni fa, è stata l'occasione per vedere nuovamente all'opera un premier di straordinaria abilità comunicativa: ha tradotto una situazione a tutti gli effetti non facile per la finanza pubblica, in uno story-telling rassicurante. Un racconto dove lui fa il duro con l'Europa, rivendica il merito delle riforme, difende gli italiani dai vincoli cattivi dei trattati europei e li invita nuovamente alla fiducia e all'ottimismo. Ha presentato una manovra che rinvia semplicemente di un anno aumenti di imposizione fiscale che avrebbero dovuto avere luogo nel 2016, vendendola come una grande operazione dove si aumenta il deficit pubblico per tagliare le tasse, quasi in stile Laffer.

I numeri della nota di aggiornamento al DEF ci avevano già raccontato che nel 2016 il deficit sarebbe passato da un tendenziale di 1,4 a un programmatico di 2,2 per cento del PIL, che nel 2017 non ci sarà più il pareggio ma un deficit di 1,1 per cento e che nel 2018, l'avanzo tendenziale di 0,7 punti lascerà il posto a un disavanzo programmatico di 0,2 punti di PIL. Ora, con la legge di stabilità, il governo conferma questa scelta. Mostrandosi peraltro inamovibile difronte a eventuali osservazioni critiche da parte della Commissione Europea. Dalle dichiarazioni del presidente del consiglio emerge, in modo inequivocabile, che per il governo italiano “la legge di stabilità è questa, se l'Europa ce la rimanda indietro, ne prenderemo atto ma la rispediremo a Bruxelles così com'è, senza cambiare una virgola”.

È un atteggiamento con il quale, chiaramente, si vuol rendere credibile agli occhi degli italiani una nuova operazione-fiducia. Una operazione che il governo cerca di alimentare con sgravi fiscali per le famiglie (taglio di IMU e TASI) e le imprese (super-ammortamento, nuova de-contribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, e forse anche il taglio dell'IRES direttamente dal 2016) e con la solita pletora di maggiori spese, necessarie per venire incontro da un lato ai grandi e piccoli temi della società italiana - ecco quindi la cultura e il merito, la lotta alla povertà, la tutela ambientale, la cooperazione e lo sviluppo - ma dall'altro lato anche al pubblico impiego e alle ordinarie esigenze di manutenzione del consenso. A quest'ultimo fine probabilmente sono mirati gli interventi di “piccolo cabotaggio” racchiusi dentro una grossa voce calderone, che nei sintetici documenti a disposizione, per il momento è denominata “altro”.

A prima vista la cifra totale della manovra descrive una operazione piuttosto consistente: una finanziaria da 26,5 miliardi di euro. Qualcuno l'ha definita una operazione in "stile Laffer", anche se un tantino “alle vongole”. Secondo me di Laffer, al di la degli annunci, la manovra ha ben poco. L'aumento del deficit c'è, precisamente si tratta di 14,6 miliardi di euro, però non serve a ridurre il carico fiscale: serve piuttosto a sterilizzare la clausola di salvaguardia. Il maggior deficit in realtà è il rinnovo di una cambiale con Bruxelles. Una cambiale che, pagata subito, avrebbe imposto di aumentare il gettito fiscale, tra IVA e accise, di 16,8 miliardi di euro già dal 2016. Tagliare le imposte in deficit e sterilizzare temporaneamente un aumento devastante della tassazione non sono la stessa cosa. La prima è una manovra Lafferiana, la seconda no, decisamente.

Il reale significato di questa operazione è un altro: oltre la metà dell'ammontare in gioco nella manovra, è soltanto una di “partita di giro” (mi si passi il gergo tecnico, formalmente impreciso, ma sostanzialmente calzante). Si aumenta il deficit perché non si è tagliata la spesa o non si sono aumentate le imposte nella misura su cui ci si era impegnati a fare, e si rinvia la patata bollente a un futuro molto prossimo.

Da questo punto di vista, l'immagine del premier matusa diviene effettivamente una pantomima. E diventa molto più verosimile l'ipotesi di un presidente del consiglio costretto a scegliere il minore tra due mali. Da un lato quasi 17 miliardi in più di IVA e accise con effetti devastanti sull'economia e sull'immagine del governo. Dall'altro lato aumentare il deficit ed esporsi al giudizio della commissione. Ovviamente ha scelto la seconda alternativa. Ha scelto cioè di aumentare il deficit, provando a convertire in “merito di credito” il suo piano di riforme istituzionali, contando su nuove concessioni future in termini di flessibilità di bilancio e sperando addirittura in un ammorbidimento definitivo del fiscal compact.

Se si va un po' a fondo, al netto del rinnovo della cambiale con la Commissione, la sostanza vera della nuova legge di stabilità diventa decisamente più scarna. Al netto della “partita di giro”, il quadro delle risorse vere e degli impieghi della manovra si riduce, e di parecchio. Quali sono e quanto valgono le risorse vere? I tagli di spesa veri valgono 5,8 miliardi di euro. La spending review avrebbe dovuto produrne circa 10, ma come al solito, da noi, tagliare la spesa corrente si dimostra oltremodo complicato. Bisognerà anche vedere, poi, se i tagli programmati diverranno tutti effettivi oppure se ne perderanno altri per strada. Ci sono 3 miliardi di aumenti di entrate espliciti. 2 miliardi arrivano dalla voluntary disclosure per il rientro dei capitali all'estero, mezzo miliardo dalle imposte sui giochi e mezzo miliardo dalla vendita di nuove licenze, sempre per i giochi. Altri interventi, definiti in modo un po' sibillino "ulteriori efficientamenti", dovrebbero assicurare 3,1 miliardi. Non è ancora chiaro di cosa si tratta, ma la diffidenza maturata con gli anni mi porta a pensare che se fossero veri tagli di spesa li avremmo visti sommati direttamente agli altri tagli. Altrimenti, perché mai il governo avrebbe dovuto esporsi alle critiche sul fallimento della spending review? Il sospetto, quindi, è che in realtà si tratta di misure un po' ibride, e che nell'ipotesi peggiore potrebbero nascondere altri aumenti di entrate.

Quali sono e quanto valgono gli impieghi? Ci sono 6 miliardi di sgravi fiscali. Per la precisione 4,6 miliardi di euro per l'IMU e la TASI (inclusa IMU agricola e imbullonati), 1,4 miliardi di euro per i super-ammortamenti e la decontribuzione sulle nuove assunzioni (una versione molto depotenziata dello sgravio contributivo varato dalla precedente manovra e i cui stanziamenti sono ormai esauriti). A questi si affiancano 3,7 miliardi di euro di maggiori spese. Per esattezza 1,1 miliardi per misure sociali e contrasto alla povertà, altri 1,2 miliardi derivano dall'allentamento dei vincoli di spesa a favore dei comuni, e altri 1,4 miliardi polverizzati in una serie di interventi che vanno dalla cultura e merito, Terra dei fuochi, cooperazione e sviluppo, al pubblico impiego e ad altre misure non meglio specificate.

Non è ancora chiaro se la UE concederà quell'ulteriore 0,2 per cento di flessibilità, legato alla “clausola migranti”, necessario a finanziare lo sgravio IRES per circa 3 miliardi nel 2016. In sintesi, e in mancanza di ulteriori margini di flessibilità, dunque, le risorse vere a disposizione della legge di stabilità 2016 vengono da 5,8 miliardi di minori spese e 6,1 miliardi di maggiori entrate per un totale di 11,9 miliardi. Sul fronte degli impieghi, 6 miliardi di euro sono minori entrate, 3,7 miliardi se ne vanno in maggiori spese per un totale di 9,7 miliardi. La differenza di circa 2 miliardi va a tamponare la parte di clausola di salvaguardia non coperta dall'aumento del deficit.

In sintesi, nell'impianto della legge, al netto della “partita di giro”, i tagli di spesa, come al solito sono timidi e incerti. Una parte non trascurabile delle risorse arriva sempre e comunque da aumenti di entrate pubbliche, per lo più entrate fiscali. E alla fine, sgravi fiscali e aumenti di entrate grosso modo si equivalgono. Così come si equivalgono all'incirca tagli di spesa annunciati e nuove maggiori spese impegnate. Se queste cifre saranno confermate anche dall'iter parlamentare, anche questa nuova legge di stabilità non si discosta molto dal solco tradizionale delle leggi finanziarie italiane. Nel complesso si tratta della consueta operazione di rimescolamento di risorse. Forse sarà utile a tamponare la perdita di consenso che spaventa il governo in vista di due appuntamenti elettorali importanti. A Milano e, con tutta probabilità, a Roma. E magari anche quello, sempre più verosimile, delle elezioni politiche anticipate nella primavera del 2017. Non avrà, invece, un grande impatto sulla crescita dell'economia.

@amedpan