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La nascita e la presa del potere del sovranismo populista in Italia. Come ci siamo arrivati, e come ne usciamo? E soprattutto, quali sono le forme identitarie di questa nuova ideologia vincente, e come si può immaginare di sconfiggerla? Una chiacchierata con Stefano Ceccanti, costituzionalista, professore di diritto pubblico comparato e deputato del PD.

 

Stiamo assistendo in queste settimane a una sostanziale distorsione delle regole costituzionali: dalla subordinazione per contratto dei candidati del M5S a una srl all’introduzione surrettizia del vincolo di mandato attraverso lo statuto dei gruppi parlamentari, fino all’esproprio subito dal Quirinale del processo di formazione del Governo. Il successo dell’antipolitica passa oggi anche attraverso la destrutturazione dei processi istituzionali tradizionali? Come siamo arrivati a tutto questo?

Dopo trent'anni di transizone istituzionale infinita, con leggi elettorali costantemente ridiscusse e la Costituzione invariata, non c'è purtroppo da stupirsi. Il referendum costituzionale aveva, al di là degli aspetti tecnici, individuato una soluzione, in particolare con una legittimazione diretta del Governo che rendeva il cittadino arbitro di quella scelta. Caduta quella prospettiva, contrariamente a quanto credevano alcuni oppositori, se non si crea un rapporto stringente elettori-partiti-governo, non si libera affatto il Parlamento né la Presidenza della Repubblica, ma si ricrea una partitocrazia invadente, per di più meno legittimata rispetto al primo sistema dei partiti che aveva un radicamento diverso. Si è quindi affermato un decisionismo extraparlamentare che è difficile sradicare.

 

Le elezioni del 4 marzo, e la maggioranza “sostanziale” che ne è scaturita, ha stravolto il panorama politico tradizionale secondo uno schema che replica dinamiche in atto in tutto l’Occidente, dagli Stati uniti di Trump al Regno Unito della Brexit, dal pericolo scampato francese (scampato però grazie alla discesa in campo di un attore nuovo, Macron) agli oltranzismi dei paesi dell’Europa dell’Est e dell’Austria. Dopo la guerra fredda, l’Italia torna di nuovo ad essere lo specchio più rappresentativo di tensioni che attraversano l’Occidente, solo che stavolta sembriamo essere senza difese: non abbiamo un alleato forte su cui contare, né la possibilità di caricare ulteriormente sulle generazioni successive, attraverso il debito, il costo della ricostruzione sociale. Come ne usciamo?

Ne usciamo con una diversa offerta politica che parta dal Pd ma che lo rinnovi profondamente. Il Pd è e sarà la principale forza di opposizione, che ha le potenzialità di risposta su entrambe le principali linee di frattura. La prima è quella tra europeisti e sovranisti, quella più forte in questa fase. Tutti partiamo dal concetto di interesse nazionale, ma chi è europeista, chi è a favore di un balzo in avanti nell'integrazione è più realista rispetto al bene del'Italia. Il nostro è un Paese di esportazione, con grande debito e dove arriva l'immigrazione: non può rispondere ai problemi con l'isolazionismo. Mentre per altri paesi il sovranismo può anche rispondere a un interesse nazionale, da noi no. E' un argomento che può far vincere le elezioni, ma che non consente poi un governo effettivo dei processi. Ovviamente qui siamo di fronte a una potenzialità che va colta da un partito rinnovato. La seconda è quella tra destra e sinistra, che mantiene una sua importanza, ma che va declinata con strumenti nuovi, non certo nel segno di uno statalismo di ritorno. La questione giustizia è un test di quanto affermo: una linea di serio garantismo, depurata da tossine giustizialiste che ancora si perpetuano, esprime un posizionamento giusto sia sulla prima frattura (i sovranisti, puntando su una società chiusa sono anche illiberali e giustizalisti) sia sulla seconda (perché la sinistra mira a incidere anzitutto sulle cause della mancata sicurezza e quando interviene per punire lo deve fare senza scorciatoie, puntando a evitare la recidiva, non a “più armi e carcere per tutti”).

 

Proprio la questione del debito è stata il grande “rimosso” dell’ultima campagna elettorale. Sia la curva demografica che lo stato delle finanze pubbliche ci dicono che non possiamo continuare a pagare il nostro benessere con le risorse, e quindi con pezzi di benessere, delle generazioni future. Eppure la proposta politica egemone, sia tra chi ha vinto che tra chi ha perso, era rivolta prevalentemente alle generazioni più anziane, che hanno sofferto gli effetti della crisi meno di quelle più giovani. È solo marketing elettorale (banalmente, gli anziani che votano sono più dei giovani) o si tratta di un problema più profondo? Lei è vicepresidente un’associazione che si chiama Libertà Eguale. Crede che sia possibile oggi ripartire dall’uguaglianza tra le generazioni, piuttosto che da quella tra classi, per ricostruire un’identità politicamente riconoscibile e socialmente “accettabile” per il centrosinistra? O pensare oggi alle generazioni che verranno verrebbe solo scambiato per elitarismo?

Tutt''altro, lei ha ragione. L'intento di realizzare solo limitate correzioni alla legge Fornero, per alleviare alcuni effetti troppo penalizzanti dovuti all'urgenza di quella riforma, non aveva e non ha solo motivazioni contabili, ma aveva ed ha l'intento di non aumentare lo squilibrio generazionale già esistente. Non sempre questa motivazione di fondo è stata chiara e veicolata bene, ma deve esserlo sempre di più.

 

La necessità di indagare le ragioni di una sconfitta, ricercate a sinistra soprattutto attraverso le categorie “classiche” nell’incapacità di interpretare adeguatamente i bisogni materiali dei ceti popolari, potrebbe far perdere di vista le radici della vittoria della Lega e del M5S. Steve Bannon, che del sovranismo populista è una sorta di ideologo trasversale e transnazionale, arringava così la platea del Front National: “lasciate che vi chiamino razzisti, nativisti, omofobici, islamofobici... lottate per il vostro paese e vi chiamano razzisti... lottate per la libertà e vi chiamano xenofobi... portate questi insulti come medaglie d’onore. I giorni in cui questi insulti funzionavano sono finiti. Noi diventiamo più forti, loro più deboli”. Quella che descrive Bannon - e che si afferma ovunque in Occidente vincendo clamorosamente in Italia - sembra essere una vera e propria ideologia storica, non un’offerta politica più efficace di altre a risolvere problemi contingenti. E infatti si afferma più nelle province senza immigrati che nelle città in cui l’immigrazione è una realtà demograficamente significativa. È verosimile che questa tensione al protezionismo, alla segregazione, all’isolazionismo, al sovranismo monetario, al razzismo e alla xenofobia possano imporre alle forze politiche un riposizionamento trasversale all’asse tradizionale destra/sinistra, lungo la nuova linea di frattura tra società aperta e società chiusa? E le forze politiche tradizionali (il PD prima di tutto) sono pronte a una simile sfida, o rischiano di deflagrare e scomporsi?

Come spiegavo in precedenza è vero che in questa fase la linea di frattura individuata da Bannon e, con significato di valore opposto da Sergio Fabbrini, tende a prevalere, anche rispetto a esigenze impellenti sul futuro politico dell'Eurozona. Questo porta a tensioni nel sistema dei partiti esistente. Io però non credo che dobbiamo ridiscutere il Pd in quanto tale, pur vedendone i limiti in questa fase. Il Pd può essere uno strumento utile per aggregare sia il centrosinistra europeista (ed è velleitario pensare che si possa essere riformisti nello spazio ristretto di uno stato nazionale, piccolo rispetto ai problemi da affrontare) sia elettori di cultura liberale non tradizionalmente di sinistra. Per fare questo bisogna ovviamente scegliere un tipo di opposizione che non punta affatto all'appeasement col M5S, nell'illusione che i suoi contenuti illiberali siano “accidente” e non “sostanza”, ma esattamente all'opposto: un'opposizione tanto intransigente quanto innovativa.