La libertà politica in cambio di un seggio, in nome dell'o-ne-stà
Istituzioni ed economia
Il regolamento dei gruppi parlamentari del M5S, diffuso ieri da Repubblica, prevede che il capo politico, Di Maio, possa espellere dai gruppi chi vuole, per le ragioni che vuole, senza neppure il voto di deputati e senatori e che l'espulso sia obbligato a versare, a titolo di penale, 100.000 euro al M5S.
Il tenore letterale della (con rispetto parlando) norma regolamentare è di involontario e macabro umorismo: «Il senatore che abbandona il Gruppo Parlamentare a causa di espulsione, ovvero abbandono volontario, ovvero dimissioni determinate da dissenso politico sarà obbligato a pagare, a titolo di penale, al “MoVimento 5 Stelle” entro dieci giorni dalla data di accadimento di uno dei fatti sopra indicati, la somma di euro 100.000,00». Abbandona a causa di espulsione, come muore a causa di esecuzione, caso per il quale nella Cina comunista – chissà se ancora oggi – si chiedeva ai parenti del morto il risarcimento del costo della pallottola.
Il Movimento 5 Stelle non ha solo deciso di anticipare, in forma domestica, quel mandato imperativo che vorrebbe imporre come nuovo principio costituzionale, a garanzia della “volontà generale” distillata dagli algoritmi della srl di famiglia, ma ha contrattualizzato la cessione della libertà politica dell’eletto come corrispettivo dell’elezione e previsto una penale (parola eloquente: penale) per l’infrazione dell’accordo contrattuale. Dev'essere la nuova versione di quella che quell'analfabeta istituzionale del Presidente della Camera (Fico) ha chiamato, nel tripudio dei giornalisti leccaculo, "la centralità del Parlamento".
È evidente che questa norma non può essere denunciata senza che chi la denunci appaia compromesso con parassiti e voltagabbana (cui lo stesso Regolamento apre però paradossalmente le porte ai gruppi a 5 Stelle). Il successo dei Di Maio e dei Salvini ha una cifra peculiarmente anti-istituzionale: non esprime una richiesta di più libertà politica e più democrazia, ma una sfiducia nella democrazia rappresentativa e nella routine parlamentare come mezzo di governo efficiente. Il M5S può permettersi questo – e anche altro: che arriverà – perché l’antipolitica è il rovescio, non l’alternativa della cattiva politica e un’usurpazione più radicale, perché più dichiarata e ideologicamente più “pura”, dei principi di diritto e libertà politica.
Sarebbe interessante capire, più che la sfrontata arroganza dei gruppi del M5S, il silenzio imbarazzato di tutti gli altri di fronte a uno strappo così clamoroso e a una sfida così totale alla democrazia parlamentare. I Presidenti delle Camere, compreso Fico, esso stesso contraente del contratto anticostituzionale, non hanno nulla da eccepire, a garanzia della libertà degli eletti?
Sarebbe anche interessante capire – lasciamo il dubbio agli appassionati del connubio politica-procure – se oltre ad andare totalmente fuori dal diritto parlamentare, che tutela positivamente l'espressione di voto di deputati e senatori in dissenso in dissenso dai rispettivi gruppi, con questo regolamento non ci sia spinti pericolosamente dalle parti dell'art. 294 del codice penale (attentato contro i diritti politici del cittadino), che punisce con la reclusione da uno a cinque anni “chiunque con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l'esercizio di un diritto politico ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà”.
Il ricatto della penale monetaria per i “disobbedienti” non è una minaccia volta a costringere il parlamentare a esercitare il proprio diritto politico in senso difforme dalla sua volontà? L'imposizione di una clausola lato sensu contrattuale, comportante un danno economico per l'eletto e una limitazione del suo diritto costituzionalmente tutelato (art. 67 della Carta: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato"), al di là della presumibile nullità del contratto, non è una "minaccia"?
E soprattutto, domanda delle domande: il rumorosissimo silenzio delle élite – a partire dai presidenti emeriti della Consulta e dai professionisti dell’allarme democratico – di fronte a questa deparlamentarizzazione della politica non è già un sintomo di rovinosa capitolazione culturale?