dirpd

Da queste colonne scrivevo di Corbyn solo qualche giorno fa. Lui nel frattempo è andato a concedersi un suggestivo bagno di folla al festival di Glanstonbury, dove pare che un politico non si fosse mai visto prima.

Ha fatto bene, quella del vecchio leader in piedi davanti a tanti giovani radunati per partecipare a una festa comunitaria (i festival da quelle parti sono molto più che un concerto o una serie di concerti) è un’immagine forte e molto evocativa, che in poche ore ha fatto di lui un fenomeno popolare anche oltre confine.

E se milioni di elettori progressisti sparsi tra l’Italia, la Francia e la Spagna hanno cominciato ad aspettare impazienti “il loro Corbyn", non pochi esponenti di quella stessa sofferente area politica hanno definitivamente inquadrato il leader del Labour come un modello, che se per alcuni è di rinascita, per altri è di pura e strumentale sopravvivenza.

Restiamo al nostro paese, dove non stupisce che la minoranza democratica si incendi per un simpatico socialista redivivo, visto che ne rappresenta identiche istanze e posizioni. Non stupisce neppure che i renziani d’assalto lo prendano di mira per le opposte ragioni: è il gioco delle parti, per quel che vale.

Più interessante, e probabilmente i prossimi mesi lo mostreranno con maggior chiarezza, è il fatto che tanti democratici meno caratterizzati sotto il profilo ideologico abbiano cominciato a considerare il fenomeno Corbyn come un fatto della storia, cui adeguarsi con plastico pragmatismo. Non deve stupire che già in questa fase le posizioni del Pd su temi che fino a pochi mesi fa vedevano una netta e precisa linea del partito per così dire liberal (penso alla ratifica del CETA e al complessivo atteggiamento sui trattati di libero commercio) stiano cambiando in modo sensibile.

Del resto è la stessa leadership del partito ad essere ormai da tempo sospesa tra opzioni più che alternative: si parli di legge elettorale o di future strategie in vista del voto, l’incertezza è totale. L’elenco dei ripensamenti del gruppo dirigente Pd è lungo e potrebbe continuare, anche se è indubbio che per l’elettore medio sia sufficiente il ritrovarsi alleato di Berlusconi al lunedì e di Pisapia al venerdì per perdere fiducia nel manovratore.

Il punto, in questi casi, è capire come porsi rispetto agli eventi, quando gli eventi risultino oltremodo indigesti. In genere in questi casi ci sono tre tipi di azione possibili, anche se i politici quasi sempre fanno finta di vederne solo due.

Il primo tipo è quello che scelgono i lealisti: tenere duro.
Tra tanti ancora sinceramente convinti della bontà del centralismo democratico ce ne sono alcuni un po’ meno ancorati agli ideali. È gente che ha sostenuto negli anni qualsiasi leader e qualsiasi linea, in nome dell’unità del partito. Da D’Alema a Renzi sono andati bene tutti - purché, beninteso, ci fosse un posto al sole per loro. Poco importa se a gennaio eri contro le corporazioni e a giugno diventi il più strenuo difensore dei tassisti: sei un uomo del partito, si fa comoda l’idea che il partito venga prima di tutto e quindi anche prima delle tue idee. Posto che tu ne abbia, è chiaro.

Il secondo tipo di azione sta nel lasciare un partito per andare altrove, volgarmente detto trasformismo.
In teoria dovrebbe essere una prova di coraggio, cioè di fedeltà alle proprie convinzioni, ma generalmente viene vista esattamente nel modo opposto: si viene accusati di essere dei voltagabbana e si paga un prezzo alto. Prezzo che è ingiusto solo nella misura in cui sia per difendere le proprie idee e non invece per ottenere qualche strapuntino che si scelga il cambiamento.

La terza possibilità è, infine, quella di chiudere l’esperienza politica. Di andarsene a casa, di tornare - per così dire - a lavorare. È una via molto onorevole, purtroppo poco battuta. La più grave tra le colpe di Renzi e di altri alti dirigenti del Pd è infatti quella di avere annunciato un addio che non c’è mai stato.

Ma, tornando a quel che capita nel partito e soprattutto a quello che si deciderà nei prossimi mesi di fronte alle evidenti ambiguità di cui parlo sopra, vorrei mettere un punto fermo nella riflessione. Un punto anche personale.

Salire sui carri per sopravvivere è cosa triste oltre che degradante. Felicità, se esiste, è stare dove si sta bene, tra persone con cui si condividono passioni e prospettive autentiche, dicendo cose che si credono giuste e possibilmente non ritrattandole dopo pochi mesi.

Poi, come dicevo, si può sempre scegliere la vita, per dirla come nei film, e rinunciare alla politica. Rinunciare alla politica è, in fondo, un atto molto politico. Escluderlo a priori o tradirlo dopo una precisa promessa rende più debole, prima ancora del politico, l'uomo che è in esso.