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Dei due modi per seguire la Direzione PD di ieri è comprensibile che per gli organi di informazione e i mandarini del potere nazareno abbia prevalso quello interno su quello esterno, quello politico su quello culturale.

Le scelte e le accelerazioni di Renzi per uscire dalla trappola “finto-unitarista”, cui lo richiamava l’opposizione interna; l’utilizzo del congresso ravvicinato per mettere fuori gioco, o con le spalle al muro, la minoranza bersaniana e le fazioni più riluttanti della sua maggioranza; il rimescolamento dell’equilibrio delle correnti e l’esibito disinteresse per la fine della legislatura, demandata formalmente alle valutazioni dell’esecutivo e dei gruppi parlamentari, ma sostanzialmente legata agli esiti del percorso congressuale: tutto come da programma.

Insomma, Renzi prova a uscire dall’isolamento e lo fa cercando sponde fuori – le primarie aperte – e non più dentro un partito di cui non si fida e di cui disprezza pubblicamente i “caminetti”. Ma Renzi sembra anche puntare a una prospettiva – quelle delle elezioni anticipate quanto prima, con una legge elettorale purchessia – che gli consentirebbe di tenere in mano il pallino delle liste, ma difficilmente, se rimanesse in piedi l’impianto dei due Consultelli, per Montecitorio e Palazzo Madama, lo vedrebbe candidato o candidabile a Palazzo Chigi, nell’alleanza teoricamente obbligata ma (con ogni probabilità) numericamente insufficiente con il Cav. e i reduci moderati dell’attuale maggioranza governativa.

Di fatto nel PD sembrano dunque confrontarsi due nichilismi uguali e contrari – quello del segretario e quello dei suoi nemici cripto-scissionisti - convergenti verso un esito identico e quasi scontato: regalare nel prossimo parlamento al M5S il ruolo di primo partito e alla coalizione no-euro (M5S, Lega, FdI e ampi settori di FI) i numeri utili per convocare il referendum per l'uscita dell'Italia dalla moneta comune. Non dico che lo vogliano, dico che questo è il risultato prevedibile (oggi quasi certo) della “guerra civile” democratica.

C’è però un altro aspetto della direzione del PD che è stato sul piano della cultura politica assolutamente significativo e gravido di conseguenze di medio-lungo periodo, anche se ovviamente meno legato alle tensioni della congiuntura e al risultato del braccio di ferro tra Renzi e i suoi nemici. Ovvio dunque che abbia fatto meno notizia, anche se in termini politici rappresenta la vera notizia di ieri. Dalla relazione di Renzi in giù l’intera Direzione è stata una sorta di immenso e corale “mea culpa” contro i cedimenti democratici al mainstream liberal-liberista e alla scelta di patrocinare i processi di globalizzazione economica – con i suoi corollari di privatizzazioni e liberalizzazioni – come una possibile risposta di sinistra (e quindi ingenuamente “internazionalistica”) ai problemi della povertà e dell’emancipazione economica delle classi più disagiate.

Visto però – questa è la tesi dem – che la globalizzazione ha picchiato duro sulla classe media occidentale e italiana (tesi che la vulgata vuole unanimemente “ufficializzata”, ma è invece concretamente discutibile) e la sinistra non ha trovato il modo per alleviarne gli effetti, allora la vittoria delle destre protezioniste e nazionaliste andrebbe intesa come una reazione risentita al tradimento delle forze progressiste e alla loro incapacità di aggiornare le strategie di protezione sociale alla nuova fase della modernizzazione capitalistica. In questa analisi, a finire nel mirino di tutti i maggiorenti del PD è stata anche l’adesione passiva alla cosiddetta “austerità” europea, fino a giungere – nell’intervento del segretario, non di un esponente della sinistra interna – al vero e proprio ripudio politico del fiscal compact e del pareggio di bilancio in Costituzione.

Per certo versi, la Direzione di ieri sembrava un’abiura del congresso del Lingotto e un processo postumo all’ottimismo veltroniano. Renzi, che di quella cultura è figlio e sul piano del governo ne è stato l’interprete più spericolato, ha tenuto nella sua relazione una posizione pragmaticamente mediana. Ha dato il via libera al sacrificio dei voucher – meglio evitare il referendum - pur mentre difendeva il Jobs Act, e ha lasciato intendere di considerare egli stesso la svolta a sinistra del PD una necessità per reagire alla concorrenza del voto populista.

Potremmo esserci distratti, ma non abbiamo sentito un solo intervento che mettesse il relazione il “gauchismo” social-nazionalista delle destre populiste non con l’oblio delle sinistre più tradizionali – che da decenni sono in affanno per l’obiettiva crisi fiscale dello stato sociale novecentesco – ma con la trasmutazione “etnico-razziale” del proletariato occidentale e con la reazione a un gigantesco mutamento di rapporti di forza tra l’ex Primo Mondo e le aree di più recente e tumultuosa industrializzazione. Nessuno di quanti sono ieri intervenuti sembrava consapevole che la destra (questa “brutta” destra) vince o prova a vincere ovunque non perché considera in modo più concreto e tutela in modo più efficiente gli squilibri nei rapporti di classe, ma perché interpreta i processi di integrazione economica come forme di usurpazione della sovranità politica e reagisce ad essa secondo un paradigma tipicamente etno-nazionalista.

Che la destra anti-establishment più incredibilmente vincente abbia oggi il voto di un immobiliarista americano miliardario, esperto in elusione fiscale e orgogliosamente impresentabile, e, per la parte essenziale, i voti di una constituency di reddito medio-alto, bianca, provinciale e diffidente del meticciamento della società americana dovrebbe insegnare agli orfani della “sinistra-sinistra” e del “cigiellismo” retrò che non possono essere loro l’alternativa al trumpismo e al lepenismo domestico. Per questo ieri la celebrazione di questa sorta di Bad Godesberg all’incontrario suonava perfino più disperata e anacronistica sulla bocca del “rottamatore” e dei suoi seguaci (da Del Rio a Orfini), che queste cose dovrebbero saperle, che su quella dei suoi cronici accusatori, che invece non riescono ad accettarle.

@carmelopalma