I migranti e l'orrore dall'altra parte del mare
Istituzioni ed economia
Non è del tutto sconosciuto il dramma che i migranti – specialmente provenienti dall’Africa – devono subire nel loro viaggio, tutt’altro che lineare e tutt’altro che pacifico. La traversata in gommone dalle coste libiche, di per sé pericolosa, è solo la punta dell’iceberg di un percorso che espone i migranti a rischi di ogni genere, soprattutto perché si trovano in balìa di organizzazioni criminali che dispongono di loro come se fossero oggetti.
Il fortuito arresto di un trafficante di esseri umani, avvenuto a Milano a fine settembre 2016, ci consente di leggere i racconti che la procura meneghina ha raccolto dai suoi connazionali somali che lo avevano riconosciuto e bloccato: un utile “spaccato” delle modalità del viaggio e soprattutto dei rischi cui si incorre. Dei migranti immaginiamo (tutti) la povertà da cui provengono, sappiamo (tutti) che vengono trattati come merce durante il percorso verso l’Italia, ma di solito non abbiamo esattamente idea delle situazioni in cui vengono a trovarsi.
L’arrestato è, stando all’accusa, il “carceriere” del campo di Bani Walid in Libia, un punto di transito e di permanenza dei migranti che vengono “concentrati” lì, e altrove, in attesa di partire per l’Italia. L’attesa in questi campi serve per far arrivare all’organizzazione criminale l’ultima tranche del denaro che i trafficanti pretendono dalle famiglie, considerando che il viaggio, in tutto, costa 7.000 dollari o poco più. Dunque la permanenza in questi campi può durare anche diversi mesi. Durante i quali, ad esempio, le ragazze subiscono violenze sessuali ripetute e frequenti. “Dovevamo dire ai nostri genitori che finché non avessero mandato i soldi saremmo stati picchiati e maltrattati, che ci avrebbero fatto del male, e che se i soldi non fossero arrivati ci avrebbero uccisi”, dichiara ai magistrati una 17enne, tra coloro che, riconosciuto l’aguzzino a Milano davanti al centro di smistamento di via Sammartini, hanno contribuito a bloccarlo.
Il campo di Bani Walid è un hangar chiuso e sorvegliato 24 ore su 24 da uomini armati, somali e libici. I migranti dormono per terra e fanno i bisogni all’interno, o qualche volta all’esterno ma sempre sotto sorveglianza. “La prima sera, Ismail (così lo conosceva la 17enne, n.d.r.) è venuto nell’hangar, mi ha presa e mi ha stracciato il vestito davanti a tutti, poi quando sono rimasta nuda ha cercato di penetrarmi, ma non ci è riuscito perché io sono infibulata". Il seguito del racconto, le modalità delle sevizie subite dalla ragazza con un'arma da taglio e il successivo stupro, è talmente crudo e raggelante che abbiamo ritenuto inopportuno riportarlo per esteso.
La violenza sessuale è solo un aspetto (ancorché drammatico) delle violenze che i migranti rinchiusi a Bani Walid devono subire. Sempre la 17enne: “Sono stata picchiata praticamente tutti i giorni. Quasi tutti i giorni Ismail con i suoi uomini entrava, e ci picchiavano tutti quanti (...) colpendoci con calci, in particolare alla testa, con dei bastoni e tubi di gomma (...) ai maschi mettevano sul dorso nudo dei sacchetti di plastica a cui davano fuoco, la plastica incendiata colava nella schiena dei maschi. A noi donne questo veniva fatto più di rado, per noi c’erano le violenze sessuali (...) tutte le ragazze del campo venivano violentate”.
Un altro ragazzo, appena maggiorenne all’epoca dei fatti (febbraio 2016), racconta le stesse violenze e anche i lavori forzati. “Molti uomini lavoravano. La mattina uscivo con altri e venivamo portati con le macchine in un luogo poco distante dove Ismail stava costruendo un altro campo di raccolta (...) Ho visto Ismail picchiare selvaggiamente le persone dentro l’hangar, continuava a picchiarli anche dopo che erano svenuti. A volte i suoi uomini tenevano ferme le persone e Ismail con i bastoni o le sbarre di ferro gli spaccava le gambe o le braccia (…) sono stato torturato con delle scariche elettriche nella stanza delle torture”. Il padre di questo giovane riuscì a recuperare e inviare il denaro mancante per la fine del viaggio in soli tre giorni, ma lui rimase ugualmente nel campo per un mese e continuò a subire le stesse violenze.
Le pagine dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere dell’aguzzino contengono altri racconti e ulteriori terribili dettagli. I testimoni accusatori riferiscono per esempio di quattro uomini morti a causa delle violenze perpetrate nel campo di Bani Walid.
Le testimonianze dal campo di Bani Walid impongono alcune riflessioni sulla necessità di trovare sistemi efficaci, di concerto con i paesi africani per contrastare le organizzazioni criminali che gestiscono i viaggi. Esistono diversi campi come quello di Bani Walid in Libia, e bisogna trovare il modo per chiuderli. Inoltre, dobbiamo chiamare l’Unione europea ad una maggiore condivisione di oneri e responsabilità circa la gestione del fenomeno migratorio. Se vogliamo dare un senso all’Ue, in conclamata crisi d’identità, un’unità d’intenti sulle migrazioni potrebbe essere un’ottima occasione.
Infine, la questione cruciale della conoscenza: quanti sono gli italiani (e gli europei) che sanno veramente quel che succede lungo la rotta dei viaggi dei migranti dall’Africa alle coste europee? La lettura dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere che contiene i racconti dei segregati di Bani Walid è un terribile e formidabile strumento di consapevolezza. Invece la stampa ha dato pochissimo risalto alla vicenda, in ossequio al senso comune che si accorge dei migranti solo al momento degli sbarchi sulle nostre coste, e li individua come problema da temere, più che come sopravvissuti da aiutare.