La Libia e noi: dal racket dei barconi alla tratta degli schiavi
Istituzioni ed economia
Le polemiche sulle condizioni in cui versano gli “irregolari” africani detenuti nei campi di trattenimento in Libia rischiano di dirottare l’attenzione dalla vera natura del problema, rappresentato dall’accordo tra il governo italiano e le autorità di Tripoli, che ha consentito di ridurre drasticamente gli sbarchi sulle coste siciliane.
Le critiche più pertinenti, come quelle di Emma Bonino, non riguardano una presunta “insensibilità” dell’esecutivo e del parlamento rispetto alla sorte di decine di migliaia di disperati, detenuti in condizioni disumane e compravenduti come schiavi in un mercato parallelo e sovrapposto a quello dei cosiddetti scafisti. La denuncia riguarda, più propriamente, ma anche più pesantemente, la responsabilità italiana rispetto a quanto sta avvenendo in Libia.
Nessuno accusa Minniti di avere “voluto” la violazione dei diritti umani nei campi libici, ma di avere, più o meno metaforicamente, “comprato”, in un accordo a pacchetto con milizie prive di qualunque legittimità statuale, un risultato - la chiusura della rotta libica - che era ampiamente prevedibile sarebbe stato conseguito solo a questo prezzo.
In Libia, la situazione degli “irregolari” e dei fuggitivi che cercano di lasciare l’Africa per raggiungere l’Europa non è migliorata, ma peggiorata. Al racket degli sbarchi si è sostituita la tratta degli schiavi. Non c’è alcun dubbio che sia così e di fatto non lo mette in discussione neppure l’esecutivo italiano, che è sinceramente (ma inutilmente) impegnato a umanizzare le condizioni di detenzione e le garanzie legali di prigionieri privati non solo di diritti, ma perfino di una propria e riconoscibile identità umana.
L’accordo, in sé astrattamente auspicabile, se da parte libica ci fosse stato un contraente non solo rispettabile, ma rappresentativo, era giustificato dall’opportunità di garantire ai richiedenti asilo un esame della loro richiesta direttamente in Libia, per evitare che sull’Italia si scaricasse la pressione politicamente ingestibile degli sbarchi e che la loro vita fosse messa in pericolo da una traversata in condizione di totale insicurezza. Ma lo stato delle cose rende evidente che questo presupposto non è nei fatti mai esistito, se non come giustificazione formale dell’accordo. Nessun “irregolare” trova un funzionario che raccolga e esamini la sua richiesta in base alle norme internazionali sul diritto di asilo. Gli “irregolari” trovano solo miliziani - che non rispondono di fatto a nessuno, se non al kalashnikov di altri miliziani - pronti a ammazzarli, a violentarli e a venderli come schiavi.
È ovvio che ciascun governo è tenuto a trattare con interlocutori di cui non può sempre selezionare la qualità e oggi di fatto in Libia la qualità di chi esercita il potere reale è decisamente scadente. È altrettanto ovvio che il potere di condizionamento e di ricatto di queste milizie rispetto all’Italia è altissimo e analogo a quello che esercitava Gheddafi, a cui in cambio della collaborazione era corrisposto il pizzo della condiscendenza, fino a ottenere, da parte di Berlusconi, pure quello di una patetica riabilitazione morale.
Non è affatto detto che esistano oggi strategie alternative concretamente praticabili per salvaguardare i diritti umani dell’oggetto dell’accordo - le decine di migliaia di fuggitivi intrappolati nei lager libici - e per evitare che l’Italia torni a essere il bersaglio di strategie di destabilizzazione politica. Nessuno sa come mettere le mani in Libia e sicuramente nessuno ha intenzione di mettercele e quindi si spiega l’angoscia di Minniti, che deve gestire le nostre strategie di sicurezza.
Ma il problema della responsabilità italiana, sia dal punto di vista politico che da quello legale, rispetto a quanto accade in Libia rimane e non ha neppure direttamente a che fare con le “politiche sull’immigrazione”, bensì con le le obbligazioni giuridiche connesse alle convenzioni internazionali e alle norme nazionali (anche di natura costituzionale) e comunitarie in materia di asilo.
Il paradosso è che, in base all'accordo, gli “irregolari” trattenuti in Libia, se fossero cittadini libici, per il solo fatto di essere sottoposti a quelle violenze arbitrarie e a una persecuzione politicamente organizzata, vedrebbero riconosciuto immediatamente il proprio diritto di asilo in Italia se solo potessero raggiungere le coste siciliane. Ed è un paradosso talmente gigantesco, che non si può rimediare, ma solo rimuovere.