Kerry, Netanyahu. La doppia ipocrisia sugli insediamenti di Israele
Istituzioni ed economia
Nella risoluzione Onu sugli insediamenti israeliani approvata grazie all'astensione statunitense si confrontano due opposte e assai poco sottili ipocrisie. La prima, di parte favorevole, è quella di volere considerare gli insediamenti nei territori occupati un ostacolo alla pace all'insegna della logica 'due popoli/due stati', cioè come la causa delle chiusure di parte palestinese a qualunque negoziato con Israele.
La seconda ipocrisia, di parte "contraria", è di descrivere il mutamento dell'atteggiamento dell'amministrazione Usa come segno di una ostilità preconcetta contro lo stato ebraico e la sua leadership e non come una sanzione (che la si consideri giustificata o meno poco importa) all'oggettivo mutamento della politica israeliana sul tema degli insediamenti e più in generale sul futuro dei territori occupati nel 1967.
Partiamo dalla prima ipocrisia. Che la pace tra israeliani e palestinesi non sia impedita dall'indisponibilità dei primi a "restituire" i territori occupati è fattualmente smentito dalla vicenda di Gaza, restituita oltre 10 anni fa da Sharon all'ANP per diventare due anni dopo la piattaforma di lancio dei missili di Hamas contro lo Stato ebraico. La soluzione "due popoli/due stati" (qualunque cosa questo significhi) è oggi e probabilmente sarà a lungo pregiudicata dall'assenza di un interlocutore palestinese credibile per qualunque possibile negoziato.
Peraltro, dei due popoli che dovrebbero stringere la pace, all'appello ne manca almeno uno, quello palestinese, che tutto sembra fuorché una comunità rappresentabile da "una" politica. Non solo la causa e la minaccia palestinese ha perso oggettivamente centralità nello scenario mediorientale, ma ha perso anche manifestamente di identità, finendo per rappresentare una somma polverizzata di rivendicazioni, minacce e ostilità contro Israele e il popolo ebraico che rendono inimmaginabile un modello di pace come quelli tentati e falliti in passato.
Ma veniamo alla seconda ipocrisia. L'impossibilità di ipotizzare oggi un piano di pace all'insegna dei "due popoli due stati", che passi da un previo riconoscimento del diritto all'esistenza e alla sicurezza di Israele, per l'attuale leadership israeliana sembra di fatto comportare la legittimazione all'uso dei territori occupati nel '67 e congelati nell'impasse di una pace impossibile come territori tout court conquistati. Si tratta di un mutamento storico, senza precedenti, a cui ha certamente concorso il senso di isolamento e di minaccia dopo l'accordo sul nucleare iraniano, ma che ha evidentemente anche ragioni interne alla politica e alla società israeliana.
Si tratta di posizioni ovviamente non unanimi, ma determinanti per gli equilibri della maggioranza di Netanyahu e aspramente criticate anche in Israele. L'uscita dalla logica dei "due popoli due stati", che comporta l'esigenza di preservare almeno potenzialmente l'entità territoriale dello stato palestinese, porta de facto all'idea di uno stato "binazionale" che per ovvie ragioni demografiche, prima che culturali, non potrebbe essere insieme ebraico e democratico. Insomma, Kerry bluffa quando dice che "gli insediamenti sono un ostacolo alla pace", ma non sbaglia a dire che "l'agenda dei coloni sta definendo quella di Israele: chiedono uno stato solo, più grande".
Se la pace impossibile con un nemico che si rifiuta di riconoscere lo stato ebraico (ed è condizionato da fazioni che hanno nella distruzione di Israele la propria stessa ragione sociale) diventa la giustificazione e il pretesto per colonizzare le terre che la Bibbia "assegna" al popolo ebraico, allora la questione della difesa di Israele cambia segno e cessa di essere una questione di diritto, di giustizia e di legalità internazionale. È un problema per Israele, ma a maggior ragione per chi voglia continuare a coltivare l'amicizia con uno Stato che affonda le proprie radici storiche nella cultura europea e nelle sue colpe e che ispira, in chiunque ne voglia preservare il senso, una speciale sollecitudine e una sincera fraternità.
La forza di Israele - quella politicamente indubitabile, indiscutibile e remissibile in dubbio solo in nome di ideologie causidiche - è stata quella di essere stata e di avere voluto fedelmente rimanere, per quasi settant'anni, dalla parte del diritto. Un'Israele forte solo della propria forza (pure indispensabile per la sua sicurezza) rischia di isolarla da chi in Israele vuole continuare a difendere l'unica democrazia e l'unico stato di diritto del Medio Oriente, non solo una potenza strategicamente amica, perché nemica dei "nostri "nemici, ma contagiata da un poco promettente etnicismo religioso. Netanyahu pensa che il rischio possa essere corso, ma la scommessa potrebbe essere perdente.