Cosa fa il M5S con le firme false e cosa chiedono i radicali su quelle vere
Istituzioni ed economia
La vicenda delle firme false palermitane contestate a parlamentari e attivisti del M5S ha diversi piani di lettura.
Il primo e più banale riguarda la contraddizione tra la retorica dell'o-ne-stà e l'imbarazzo della dirigenza grillina pizzicata nel classico imbroglio vetero-partitocratico delle firme farlocche, autenticate da funzionari compiacenti, su liste elettorali partorite con travaglio a poche ore dalla presentazione. È, questo, un evergreen della storia della Seconda Repubblica, che ha visto coinvolti, in casi eclatanti che sarebbe solo penoso enumerare, sia partitini che partitoni, a partire ovviamente da quello berlusconiano, nelle sue diverse versioni, e dal PD. Adesso scopriamo che anche "il partito degli onesti" taroccava le firme come i politici qualunque.
Il secondo piano di lettura riguarda la gestione gesuitico-poliziesca della questione morale interna affinata dal M5S. Erano partiti in principio dall'assoluta incompatibilità tra l'esercizio di una carica pubblica e la condizione di indagato - chi è indagato si deve dimettere, punto e basta - e sono arrivati a una opaca disciplina a geometria variabile, che consente di licenziare sindaci indagati e prosciolti, come Pizzarotti, di tenere comodamente in sella sindaci e assessori indagati per reati ben più gravi (Muraro e Nogarin), e di chiedere la mera auto-sospensione dal Movimento per i parlamentari e i dirigenti coinvolti nell'affaire firme false (non avrebbero dovuto i "portavoce", in base alle regole dei 5 Stelle, lasciare subito lo scranno parlamentare?).
A rendere ancora più grottesca la commedia palermitana è il fatto che tra le ragioni per cui i deputati e attivisti sono stati sospesi dai probiviri c'è quella di essersi avvalsi della facoltà di non rispondere davanti al pm. Sono stati sospesi, insomma, per avere esercitato un loro diritto processuale, previsto dalla legge, ma non conforme alle "regole del Movimento". Le prossime sospensioni, magari, saranno comminate per avere nominato un avvocato difensore o un perito di parte o citato un teste sconveniente.
Il terzo piano di lettura è quello più significativamente politico e paradossalmente più negletto e riguarda le norme che regolano in Italia i cosiddetti procedimenti a sottoscrizione popolare (la presentazione di liste elettorali, le richieste di referendum, le leggi di iniziativa popolare) e che rappresentano nella loro burocratica e cervellotica complessità non un fattore di garanzia, ma di rischio, quando non un dimostrato incentivo criminogeno.
Oggi, per raccogliere le firme, servono autenticatori individuati con criteri chiaramente discriminatori per forze politiche e sociali non insediate istituzionalmente nelle amministrazioni locali. Infatti, a parte i notai, i cancellieri dei tribunali e i funzionari comunali e provinciali delegati dai sindaci e dai presidenti di provincia, a potere autenticare le firme dei cittadini, se apposte in loro presenza, sono le migliaia di consiglieri comunali e provinciali sparsi in giro per l'Italia e appartenenti, ovviamente, alle sole forze politiche rappresentate nelle amministrazioni locali. Inoltre, a tutte le firme prodotte - in modo rigorosamente cartaceo, come prima dell'era digitale - occorre allegare il certificato di iscrizione nelle liste elettorali rilasciato dal comune di residenza del firmatario, che a volte lo manda, a volte no, a volte in tempo, a volte fuori tempo massimo.
Curiosa pratica nell'era della "decertificazione", che in teoria dovrebbe sollevare il cittadino dall'onere di procurare a un "pezzo" dello Stato un certificato prodotto da un altro "pezzo" dello stato, con il cittadino nel ruolo di postino. Con situazioni da teatro di Ionesco, come quando, ad esempio per le elezioni comunali, i presentatori di una lista devono richiedere e ritirare - ovviamente su carta - i certificati elettorali dei firmatari rilasciati da un ufficio del comune, per riconsegnarli, qualche porta più in là, a un altro ufficio del comune medesimo.
Il risultato di questo complesso sistema è ovviamente il massimo della giungla, non della trasparenza. Notai, cancellieri e funzionari pubblici, non essendo tenuti a mettersi a disposizione di chi raccoglie firme, semplicemente non lo fanno, o lo fanno a prezzi esorbitanti, regolarmente in nero, salvo molto eccezionali eccezioni. E sempre a caro prezzo, anzi maggiorato, "aggiustano" l'inaggiustabile. I consiglieri comunali e provinciali invece si mettono a disposizione dei rispettivi partiti, con una disponibilità assoluta che va dal lecito all'illecito, senza remora alcuna. Le forze politiche e sociali che non possono contare su questo esercito di autenticatori "di partito", non trovano nessuno disponibile a presenziare alla raccolta firme e si ritrovano, di fatto, privati per via burocratica di un diritto costituzionale.
I radicali, che da quarant'anni raccolgono firme, innanzitutto sui referendum e denunciano questa situazione da manicomio - ma non usano le scorciatoie dei piddini, dei berlusconiani e dei grillini e infatti non risultano notiziati tra i taroccatori di firme - continuano a chiedere alcune cose semplici e apparentemente rivoluzionarie. L'apertura alla sottoscrizione per via telematica attraverso l'identità digitale, l'abolizione dell'obbligo di certificazione elettorale delle firme (la verifica del possesso dei diritti politici del firmatario tocca a chi verifica e accetta o rifiuta, non a chi raccoglie e deposita le sottoscrizioni) e l'ampliamento della platea degli autenticatori a elettori delegati dai sindaci tra i promotori della sottoscrizione. Se scrutatori scelti da una commissione elettorale comunale (cioè dai rappresentanti dei partiti) possono riconoscere e autenticare le firme degli elettori ai seggi, perché rappresentanti del comitato promotore di un referendum non possono vedersi riconoscere la stessa prerogativa?
Nell'auspicio dei radicali, questo pacchetto doveva diventare un Referendum Act, cioè un disegno di legge che, per dare concreta attuazione alle nuove (e positive) previsioni dell'art. 75 della Costituzione (a partire dal quorum mobile per i referendum abrogativi) e rendere effettivamente accessibili gli strumenti di partecipazione politica e democrazia diretta, prevedesse una semplificazione sostanziale delle procedure di autenticazione e certificazione delle firme raccolte nei procedimenti a sottoscrizione popolare.
Richiesto di annunciarlo prima del 4 dicembre, il Governo ha finora taciuto. Ma proprio la vicenda palermitana dimostra come sarebbe più saggio sostenere le riforme suggerite dai radicali, che esprimere grande gaudio per il mal comune delle firme taroccate, che oggi affligge anche il partito degli onesti.