strada schengen

Qualche settimana fa Matteo Renzi ha promesso: l’Italia tornerà ad essere un Paese per giovani. Per adesso però i suddetti giovani si devono accontentare del futuro perché il presente è tutto appannaggio degli over più che degli under.

Nelle slide della manovra 2017 presentate dal premier qualche giorno fa, sulle quali campeggiava l’hashtag #passodopopasso, dei giovani proprio non c’è traccia (mi rifiuto di considerare il bonus ai diciottenni una misura a sostegno della fascia demografica in questione). Come previsto, è ben reclamizzato l’investimento del governo in materia pensionistica, ben sette miliardi per andare in “pensione prima” – cheers a chi dice che l’APE non è una forma di prepensionamento. E tanti saluti anche a chi, come chi scrive, in pensione ci andrà molto tardi o forse mai. 

No, l’Italia non è un Paese per giovani. Che poi, a forza di fare il verso ai fratelli Coen, magari un giorno ci piazzeranno su le royalties, vedendo quanto è inflazionato in Italia questo titolo. Osiamo e mettiamoci del nostro: l’Italia non sarà mai un Paese per giovani. E a te, proprio a te, che dopo queste prime righe sbadigliando credi di leggere il solito sermone del millennial incazzato dico: vai oltre le frasi di circostanza ad effetto, le figure retoriche, gli espedienti narrativi. Guarda semplicemente i fatti, e dimmi alla fine se è normale costruire una casa partendo dal tetto (gli anziani) anziché dalle fondamenta (i giovani).

Sì, perché è questo che si sta facendo: in un sistema pensionistico pay-as-you-go i trattamenti correnti sono finanziati dai contributi della forza lavoro, perciò se l’occupazione non aumenta sensibilmente qualcuno vuole gentilmente spiegarci da dove arrivano i denari per finanziare codesti prepensionamenti? Certo, si può spiluccare oggi qualche miliardo qua e là, sfilacciando i bordi di una coperta sempre più corta, ma non mi pare una strategia vincente per il medio-lungo termine. Che eredità consegna questa scelta ai governi a venire? Non rischiamo forse di guadagnarci dieci, cento, mille Fornero da qui al 2050 per avere fatto i sordi ai richiami di mezza comunità economica internazionale? Tant’è: il Vesuvio delle pensioni se ne sta lì, accovacciato, si accontenta di brontolare di tanto in tanto per bocca del Tito Boeri di turno, ma nessuno considera realmente il pericolo di rimanere sommersi da lava, lapilli e cenere della bolla pensionistica nostrana. Nessuno eccetto i giovani che giorno dopo giorno vedono sfumare la prospettiva di una vecchiaia serena.

Che poi, fosse solo quello delle pensioni il problema. Gratta gratta c’è qualcosa di peggio che un futuro economico incerto (o forse inesistente): c’è un’ipoteca grande quanto una casa sulle possibilità di realizzazione economica, sociale e morale di almeno due generazioni, un fardello che inevitabilmente peserà sulle opportunità che il nostro Paese potrà o non potrà cogliere. Mi faccio aiutare dai dati di Eurostat per descrivere la triste realtà.

Iniziamo col dire che i giovani in Italia sono pochi, addirittura pochissimi. L’Italia è fanalino di coda nel rapporto giovani/totale della popolazione con un misero 15,2% contro una media EU-28 del 17,5%. Winston Churchill una volta disse: non c’è investimento migliore per nessuna comunità che mettere del latte dentro i bambini. Ecco, in Italia questo proprio non ci vuole entrare in zucca.

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Secondo: siamo al terzo posto per percentuale di 20-29enni che vivono a casa con i genitori. Parliamo del 78% contro una media EU-28 del 55,6%. In Scandinavia tanto per capirci siamo tra il 23 e il 10%. L’Italia è una repubblica democratica fondata sul “ti presento i miei”. Colpa della crisi? Può darsi. Ma nel 2006, quando il termine subprime poteva essere scambiato per il titolo di un film e il fallimento di una grande banca americana per la trama di un romanzo, eravamo comunque quarti con il 73%.

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Terzo: siamo il Paese con la più bassa percentuale di 30-34enni che hanno concluso il ciclo di istruzione terziaria. Con un misero 22,5% (media EU-28 del 37,1%) veniamo doppiati da sette paesi, compresi Cipro e Lituania. “Studiate, capre!” direbbe Vittorio Sgarbi.

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Quarto: un terzo dei nostri giovani è a rischio povertà (36,6%), lontanissimi da Francia (25,6%) e Germania (23,3%).

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Quinto: più di un giovane su quattro si merita l’appellativo di NEET, non è cioè impegnato nello studio, né lavora, né frequenta programmi di formazione.

Altro che bloccare lo sbadiglio: se prendiamo sul serio questi dati rischiamo di non riuscire a prendere il sonno la notte. Viene dunque spontaneo chiedersi perché la classe politica attuale e quelle precedenti non abbiano mai investito sui giovani. Nessuna pretesa di essere esaustivi, ma è utile tornare alla manovra finanziaria e all’imminente referendum: a prescindere dal giudizio che ci si può esser fatti sulla riforma, rimane il fatto che la partecipazione politica è decisamente sbilanciata sugli over 40, perciò puntare a consolidare il consenso in quella fascia di elettorato è certamente più premiante e meno faticoso che doversi conquistare quella giovane. Ricordate? L’Italia tornerà ad essere un Paese per giovani – adelante Pedro, con juicio.

C’è da aggiungere che l’istruzione costa: noi abbiamo scelto di non puntarci e ne stiamo raccogliendo i frutti. Siamo infatti terz’ultimi nella spesa pubblica in questo settore nell’EU-28 (dietro a noi solo Ungheria e Slovenia) e quint’ultimi nei salari ai docenti.

Non c’è dunque da sorprendersi se questa importante porzione di popolazione, a rischio di esclusione sociale, sotto-istruita e con scarse prospettive di realizzazione si disaffezioni non tanto ai partiti quanto alla politica e perda interesse per la res publica, quando non si lasci addirittura conquistare da facili slogan populisti. Oggi la vera domanda è: qual è il prezzo che pagheremo per aver abbandonato a sé stessi i giovani? Per come stanno oggi le cose, c’è abbastanza materiale per intonare un bel de profundis.