Chi si rivede, i prepensionamenti: l'Italia non è un paese per giovani
Istituzioni ed economia
Non c’è legislatura che non parta con le migliori intenzioni per adeguare la previdenza agli standard internazionali in termini di spesa percentuale sul PIL e adattamento all’aspettativa di vita, nel tentativo di salvarne la sostenibilità futura. Peccato che si finisca sempre per inventare cavilli, finestre e algoritmi che allargano inevitabilmente la platea dei quiescenti.
L’ultima ad aver provato a dare un serio giro di vite è stata Elsa Fornero, che con la sua riforma ha abolito le pensioni di anzianità e alzato l’asticella per quelle di vecchiaia, agganciando l’età di pensionamento alla prospettiva di vita futura. Nonostante alcuni innegabili limiti della riforma, uno su tutti la “svista” degli esodati, essa rispondeva alle accorate raccomandazioni che la comunità internazionale ci rivolgeva da tempo.
Il trattamento di anzianità è oggi rimpiazzato dalla pensione anticipata, che permette di ricevere l’assegno di quiescenza senza penalizzazioni avendo maturato 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Un requisito non da poco, al quale bisogna aggiungere la penalizzazione programmata per il 2018 pari all’1% per ogni anno di anticipo sulla pensione se si è già compiuto il sessantesimo anno d’età, da raddoppiare nel caso non si siano spente le sessanta candeline. Il requisito dell’anzianità costituisce senza dubbio una forte barriera all’uscita, specialmente per chi ha iniziato tardivamente la carriera oppure è rimasto bloccato dal punto di vista contributivo per via di crisi aziendali o stati di disoccupazione.
A questo punto il legislatore è posto di fronte ad un bivio: accettare come tutti i paesi sviluppati la scommessa dell’active ageing, tentando di incrementare quanto più possibile l’occupazione degli over 50, oppure rimettere mano ai cordoni della borsa, aprendo alla flessibilità in uscita. In Italia la staffetta generazionale è considerata un dogma e quella dei pensionati è una delle lobby silenti più forti: optare per la seconda possibilità era perciò inevitabile.
L’accordo firmato il 28 settembre scorso da governo e CGIL, CISL e UIL va in questa direzione. Riporto uno stralcio del testo:
Attualmente la flessibilità di uscita per le generazioni ora prossime al pensionamento è prevista solo per la carriere lunghe con il canale del pensionamento anticipato. Canale che trova negli interventi indicati una sua maggiore efficacia ed equità (precoci, usuranti e cumulo). Ma a ciò si contrappone una sostanziale rigidità nell’uscita dal mercato del lavoro che, non avendo maturato carriere e molto lunghe, possono accedere al solo pensionamento di vecchiaia.
La novità introdotta dalle parti consiste nella possibilità di accedere al pensionamento al compimento del 63° anno di età a prescindere dal requisito dell’anzianità previsto dalla pensione anticipata: l’importante è infatti maturare entro 3 anni e 7 mesi i requisiti per l’assegno di vecchiaia (ovvero 66 anni e 7 mesi e 20 anni di contributi). Questo sistema è affiancato da un meccanismo chiamato APE (acronimo per Anticipo Pensionistico), un prestito erogato da un istituto di credito e coperto da una polizza assicurativa che interviene nel periodo tra l’ingresso anticipato e l’effettiva maturazione dei requisiti. Il prestito si restituisce nei successivi vent’anni dal raggiungimento della vecchiaia.
Roba da geni del male. Va da sé che prima si va in pensione più l’APE incide sull’emolumento finale. La simulazione pubblicata da Repubblica stima che un lavoratore del 1954 con un trattamento di 1.600 euro lordi che decida di usufruire di questa opportunità percepirebbe 1.134 euro durante il periodo di anticipo (-12,5% sulla pensione piena) e addirittura 811 euro nei vent’anni successivi (-37,5%) con una perdita complessiva di oltre 120 mila euro! Rimane da capire in quanti – specialmente tra chi un lavoro ce l’ha già – accetteranno penalità così salate e per un tempo così prolungato pur di guadagnare qualche anno sulla tabella di marcia.
Questa è la ragione per cui i sindacati premono perché l’APE agevolata (“bonus fiscali aggiuntivi o trasferimenti monetari diretti, volti a garantire un reddito ponte interamente a carico dello Stato” si legge nel testo dell’accordo) sia estesa al maggior numero di categorie: disoccupati di lungo corso, lavoratori a rischio di infortunio o malattia professionale o in precarie condizioni di salute e infine lavoratori i cui carichi di lavoro siano incompatibili con l’assistenza di un parente di primo grado con disabilità grave.
Di punti oscuri – o quanto meno poco chiari – l’APE ne presenta diversi: rimane da capire quale sarà la soglia minima per accedere al prestito pensionistico (l’accordo parla solo di pensioni di vecchiaia non inferiori ad un certo limite). Tutto da definire il ruolo, anche dal punto di vista amministrativo e gestionale, dell’INPS: il presidente Boeri ha già dichiarato che senza una riorganizzazione dell’INPS l’attuazione della riforma è a rischio. Mancano dati certi inoltre sui tassi di interesse del prestito e sui costi assicurativi. Da chiarire anche l’eventuale accesso al credito dei pensionandi attraverso la cessione del quinto, dato che attualmente non è concesso stipulare nuove operazioni in presenza di trattenute ereditate dal servizio. Molto probabilmente la rata dell’APE, intaccando la pensione netta, andrà ad influire sull’entità della quota cedibile, ovvero la rata massima applicabile in questo tipo di operazioni. Particolari non di poco conto, se si considera che (dati dell'Osservatorio Mensile Credito al Consumo 2015, Assofin) nel 2014 sono stati erogati 1,84 miliardi di euro tramite cessione del quinto della pensione, pari al 44% sul totale del prodotto e al 4% dell’intero mercato del credito al consumo. Infine, in presenza di determinate patologie la compagnia assicurativa potrà rifiutarsi di emettere la polizza a garanzia dell’APE, inibendo in tal modo il prepensionamento?
Il nodo più importante da sciogliere riguarda tuttavia la platea dei beneficiari dell’APE agevolata: poiché come ben specificato nell’accordo i costi sono interamente a carico dello Stato – in realtà noi sappiamo che non esiste il denaro pubblico, ma solo quello dei contribuenti – tanto più essa sarà ampia, tanto più questa manovra risulterà gravosa per la collettività. Sembra infatti tramontata la proposta di finanziare i costi con un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte, magari quelle maturate col sistema retributivo e totalmente sproporzionate rispetto ai contributi versati. Il costo della riforma (oggi sono stati stanziati sei miliardi, ma c’è già chi dice che saranno insufficienti) dovrà ricadere ancora una volta sulla fiscalità generale? E' giusto cedere ancora una volta all’italico vizietto dei prepensionamenti quando c’è una generazione, quella dei nati negli anni Ottanta, che la pensione rischia proprio di non vederla mai?
Nel soddisfare un’esigenza contingente – anche di natura elettorale – si introduce un ulteriore fattore di instabilità che mina la sostenibilità futura dell’intero sistema previdenziale. Forse sarebbe meglio che i giovani iniziassero ad attrezzarsi per difendere i loro diritti e garantirsi un futuro: mala tempora currunt, sed peiora parantur.