Dal reaganismo al trumpismo: la nuova destra, inutile e vincente
Istituzioni ed economia
C'è evidentemente qualcosa che lega il trionfo dell'ultra-destra austriaca, la benedizione di Trump a Salvini e la resistenza di Berlusconi, in nome di una identità moderata da tempo dismessa, a una capitolazione che è già nei fatti e attende solo una ratifica formale. Il fil rouge è rappresentato dall'affermarsi globale di un "nuovo" pensiero mainstream, che ha sostanzialmente rinnegato i presupposti culturali delle rivoluzioni liberal-conservatrici degli anni '80 e riabilitato i motivi nazionalisti e sovranisti delle destre anti-liberali primo novecentesche.
Di fronte agli effetti dei fenomeni di integrazione globale, immigrazione compresa, e ai processi di impoverimento economico e spiazzamento sociale della classe media dell'ex primo mondo, il passaggio dal reaganismo al trumpismo e dal thatcherismo al lepenismo ha una sua logica fatalità. Se il liberismo era l'indice della fiducia nel progresso economico e civile delle maggioranze silenziose sedute dal lato vincente della globalizzazione, oggi il protezionismo nazionalista - e in generale il prevalere di istanze di chiusura e di accaparramento delle garanzie welfariste - è la misura della paura e dell'angoscia dei nuovi perdenti.
La classe media non ha più un'ideologia media, o come si usa dire moderata, perché si misura con un problema estremo, che rischia di mutare in profondità i connotati delle società occidentali, visto che il confine della povertà e dell'esclusione sociale non coincide più con quello della disoccupazione e dell'esclusione economica. Più che la proletarizzazione, milioni di europei e americani temono per sé e per i propri figli la "terzomondizzazione" del lavoro e della cittadinanza e quindi una perdita netta di identità e di potere politico. E vedono nelle democrazie rappresentative dei propri paesi mere scatole vuote di quattrini e piene di vincoli esterni, cioè stranieri.
Questo processo, in Europa, spiazza sia le destre liberali che le sinistre socialdemocratiche tradizionali, che sono in rotta pressoché ovunque e per le medesime ragioni. Istanze produttivistiche o redistributive suonano vane e inattendibili di fronte alla sfida esistenziale rappresentata da un mutamento epocale di rapporti di forza economici e demografici e dalla oggettiva "periferizzazione" del vecchio continente. Quel che succede negli Usa, malgrado la cavalcata trionfale della presidenza Obama, è solo apparentemente diverso. Anche lì la politica mainstream perde pezzi e a dominare la scena, malgrado la faticosa tenuta di Hillary Clinton, sono due outsider, Trump e Sanders, un populista e un socialista estranei all'establishment dei rispettivi partiti, e accomunati da riflessi isolazionisti e da un risentito nazionalismo economico, più che da un orgoglioso ideale patriottico.
In Europa, l'unica destra (molto sui generis) che tiene e argina con successo la propria ombra populista è ancora quella della Merkel, che continua a giovarsi, malgrado tutto, della rendita di un decennio di crescita economica straordinaria. Le altre destre europee, fatta forse eccezione per quella spagnola, corrono dietro alla propria ombra, senza riuscire a acchiapparla e finendo sempre più per somigliarle.
La natura dello scontro ruota attorno a simulacri di sovranità - le frontiere e i poteri democratici nazionali, innanzitutto - che tornano sacri nel momento in cui si scoprono irreparabilmente vuoti, del tutto inservibili alla resistenza. Non c'è nessuna coerenza pratica tra il problemi esiziali che la destra vincente agita e le soluzioni miracolose che propone, cioè tra l'incubo della marginalità economica e il miraggio dell'auto-isolamento e tra la paranoia della "sostituzione etnica" e la chimera dell'autosufficienza demografica.
Questo cattivismo impotente, del resto, non preclude affatto le possibilità di successo. La frustrazione dei perdenti esige riconoscimento, prima che soluzioni, soddisfazione, prima che risarcimenti. Dar ragione al dolore senza provare ad alleviarlo, ma piuttosto a esacerbarlo perché diventi più produttivo, cioè più obbediente ai condizionamenti, è qualcosa che le destre e le sinistre cattive hanno sempre saputo fare, agitando dinanzi al popolo inferocito e sensibilizzato l'immagine di traditori, profittatori, parassiti ... Funziona perfettamente sia nelle retoriche totalitarie, che in quelle democratiche.
Per anni, sbagliando, in molti abbiamo pensato che la resa preventiva di Berlusconi al successo della destra populista e la consegna delle chiavi della casa liberale al sulfureo genio reazionario di Tremonti costituissero un'anomalia nell'anomalia berlusconiana, la rinuncia a una normalità possibile. Era invece una sorta di suicidio profetico, un'autoconsegna anticipata a quella normalità populista che di lì a qualche anno avrebbe terremotato la destra occidentale. Che però almeno esce da questo terremoto non una, ma bina, mentre quella italiana (altro retaggio da anni '30) risulta perfettamente unificata in senso populista.