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Ieri è stata approvata la riforma più renziana di tutte, un misto di furbizia populista, con gli oltre centomila assunti ope legis, e di rupture riformista, con la fine dell'autogestione scolastica per la generazione che se ne era era innamorata sedendo dall'altra parte della cattedra (era "la scuola dei padroni" e meritava "dieci, cento e mille occupazioni") e all'autogestione, come rimedio al rischio autoritario implicito in ogni rapporto gerarchico, era rimasta sentimentalmente affezionata anche quando aveva iniziato "democraticamente" a insegnare.

Si tratta di una riforma assai meno definitiva di quella dell'articolo 18, ma culturalmente ancora più sfidante e dolorosa per quel mondo che si era asserragliato nelle classi della scuola egualitaria facendone una trincea di orgogliosa resistenza culturale al "pensiero unico" o al "mercato" e oggi non riesce a tollerare che qualcuno, o qualcosa, possa turbare l'ordine della precarietà e dell'emergenza scolastica permanente, con i suoi annessi e connessi burocratico-sindacali. A partire dal labirinto di graduatorie, abilitazioni e punteggi in cui si è smarrito il senso e la stessa possibilità di fare scuola in modo normale, secondo una relazione razionale tra mezzi e fini e tra vincoli e risorse, ma si è esercitata per anni eroicamente la professione di fede incompresa di una classe docente frustrata e socialmente negletta, e però persuasa di essere una sorta di super-ego della coscienza nazionale.

Ad approvare la Buona Scuola, alla fine, sono stati innanzitutto i parlamentari PD. Eppure, ad opporsi alla legge è stato un fronte politico-sindacale la cui grande maggioranza è composta da insegnanti e "operatori" che votano (o votavano) per il PD. Come si dice: "Houston, abbiamo un problema."

Più che sull'articolo 18 o sulle riforme elettorali e istituzionali, proprio sulla riforma della scuola è venuto meno il simulacro della possibile unità di un partito che oggi riproduce al proprio interno, in modo disordinato e sempre meno ordinabile, tutti i conflitti di una sinistra che, per arrivare da Tsipras a Verhofstadt, entra in contraddizione con se stessa e si perde in differenze inconciliabili e in ostilità inguaribili. Gran parte della vecchia leadership PD - compresa quella scesa finora a patti con il rottamatore - aspetta solo il momento di seppellire Renzi, e ne festeggerebbe la rovina come una vittoria, anche se questo preludesse a una nuova probabile sconfitta e al ritorno a un ruolo di opposizione.

Sulla Buona Scuola Renzi ha dovuto accettare più compromessi e mediazioni di quanti ne abbia dovuti subire sulle tutte le riforme che portano fino ad oggi il suo nome e il suo marchio. Eppure esce da questo scontro ferito, più di quanto dicano le defezioni nel voto di ieri alla Camera, perché il demos democratico non si è affatto riconosciuto nell'impazienza iconolocasta dei totem e dei tabù della scuola pubblica e si è orgogliosamente ribellato allo sbrigativo ordine di servizio con cui gli si intimava di cambiare registro e di abbracciare la sfida di una scuola più responsabile nel suo funzionamento e più efficiente nei suoi obiettivi di emancipazione e mobilità sociale. La stessa idea di efficienza - come dimostra il sabotaggio dei test Invalsi - è del resto una prova di capitolazione culturale al linguaggio del "nemico", no?

La riforma è passata, perdendo qualche pezzo. Ma ne ha persi molti di più il PD, per portare a casa una legge così estranea alla natura della sua constituency culturale e sociale e così invisa ai Mahatma della sinistra. La scuola è forse più buona, il PD sempre più cattivo per la leadership renziana.