Al ballottaggio vince il voto-contro. Renzi è solo
Istituzioni ed economia
Se il voto regionale e il primo turno delle comunali non avevano prodotto significative novità politiche - usciva consolidato il tripolarismo Renzi-Salvini-Grillo, anche se già emergeva un evidente rischio di tenuta per l'Italicum mono-partitico, con un Pd troppo piccolo e troppo diviso per funzionare da partito-sistema - il risultato di ieri è molto più amaro per il premier e soprattutto svela il potenziale azzardo della scelta del ballottaggio come clausola di salvaguardia insieme politica e istituzionale del nuovo sistema di voto.
A Venezia e ad Arezzo, ma paradossalmente anche dove il PD ha vinto soppiantando amministrazioni di centro-destra, come a Mantova, nel ballottaggio si è realizzata una naturale convergenza del voto di opposizione - di tutte le diverse e apparentemente incompatibili opposizioni - contro il candidato al potere o erede del potere uscente.
In questi casi, il ballottaggio, anziché moderare il voto, privilegiando il candidato complessivamente meno sgradito e più mediano, come vorrebbe la logica del doppio turno, ha coalizzato il voto-contro e radicalizzato la scelta degli elettori. Il doppio turno, che sembra fatto apposta perché i fenomeni in senso lato anti-politici o anti-sistema rimangano ai margini del gioco per il governo, ha invece funzionato come detonatore della rivolta.
L'istanza del cambiamento inteso nel senso della ricerca della "novità" o del ricambio della classe dirigente interpretato come "rottamazione" anagrafico-generazionale della vecchia politica appartiene, come è noto, anche alla narrazione renziana, ma è incompatibile con l'esercizio duraturo di una funzione di governo (Renzi è a Palazzo Chigi dal febbraio del 2014) e difficilmente adattabile alle esigenze di un processo di riforma, come quello che vede impegnato il segretario del PD, che implica tempi di realizzazione medio-lunghi e potrebbe sortire effetti positivi solo a lungo termine.
Non c'è ovviamente nulla di sorprendente nel fatto che un Paese economicamente affaticato e tutt'altro che fuori dall'incubo della stagnazione economica e civile usi tutti i mezzi elettorali a disposizione per mandare messaggi di impazienza e di rottura. Peraltro, la natura aritmeticamente maggioritaria del voto contro - ma disseminato in partiti e schieramenti non direttamente alleabili - era già evidente fin dalle trionfali (per Renzi) elezioni europee del 2013. Ma ora il rischio di crash si è concretizzato.
Molto prima delle elezioni politiche, la dinamica "tutti contro il governo", cioè "tutti contro Renzi", potrebbe realizzarsi proprio sulla riforma costituzionale che, allo stato, rischia di avere più possibilità di passare al Senato, malgrado la balcanizzazione del PD, che nel successivo referendum confermativo, che rappresenterebbe una ghiottissima occasione di unità per il variegato fronte anti-renziano.
Renzi ora è davvero solo e non ha exit strategy per rendere più agevole e gestibile questa, fino a poco tempo fa "magnifica", solitudine. Le elezioni anticipate con il Consultellum, d'altra parte, non sono un'opzione, se non per un inutile regolamento di conti intra-PD.