Interesse nazionale: il falso mito delle aziende di Stato e l’esempio americano
Innovazione e mercato
In questi giorni di emergenza globale COVID-19, con all’orizzonte una delle più gravi crisi dell’età contemporanea, nel mondo occidentale si sprecano le analisi sul sistema economico e sociale, inteso come il modo di vivere, lavorare, produrre ricchezza e distribuirla. Nel nostro Paese, soprattutto grazie alla massiccia iniezione di liquidità della BCE, si sta realizzando un poderoso programma di spesa e investimenti pubblici per sostenere imprese e famiglie. Oltre a questa giusta esigenza, per alcuni questi interventi non rappresentano una misura straordinaria, bensì il ritorno, neanche celato, a una nuova stagione di statalismo industriale e dirigismo economico, per la tutela di un presunto interesse nazionale.
Aperta parentesi. Alcune riflessioni delle ultime settimane hanno riproposto il tema del fallimento del totem neoliberista, riferendosi con esso al capitalismo contemporaneo e alle sue presunte implicazioni con la supremazia degli interessi economici e la compressione dei diritti umani e sociali, compreso quello alla salute. Dal “nuovo comunismo” di Slavoj Zizek al “capitalismo che strangola la salute” della sociologa Eva Illouz, il virus ci imporrebbe una sorta di riconciliazione tra la nostra società e la sua natura umana, suggerendo un non precisato ampliamento degli spazi di azione e manovra dello Stato.
La narrazione delle imprese e dei mercati cattivi non è un fatto nuovo, ma anzi ormai piuttosto ricorrente nelle recenti crisi economiche, e, da più di vent’anni, non è sorretta da una visione convincente nella cornice del capitalismo globale, della digital economy e dell’inarrestabile evoluzione tecnologica. Chi scrive ritiene che sia un falso progressismo rispolverare formule superate o sostenere la maggiore presenza dello Stato come ricetta per un maggior benessere diffuso e condiviso, senza invece discuterne i caratteri di obsolescenza. Il virus dimostra che fenomeni globali non possono essere gestiti da Stati nazionali. Allo stesso modo, è evidente che non serva più o meno Stato per come lo conosciamo oggi, ma forme statuali diverse. Chiusa parentesi.
In questo quadro, anche in Italia, nel bel mezzo dell’emergenza pullulano analisi e proposte per uno Stato più forte e più presente nei settori strategici dell’economia. Il fatto che le risorse di sostegno alle imprese saranno sostanzialmente gestite dalla società pubblica SACE, controllata di Cassa Depositi e Prestiti, è stato salutato dal Ministro Patuanelli come la possibile nascita di una nuova Iri. Lo stesso ha anche sostenuto in un’intervista al Corriere della Sera che è il momento per una nuova “regia silenziosa” degli affari economici da parte dello Stato. Peccato che spesso – quasi sempre – questa regia sia stata costosa, piuttosto che silenziosa, sia a livello nazionale che locale (è utile ricordare le performance scadenti di molte società partecipate degli enti locali, che erogano servizi pubblici in regime di sostanziale monopolio).
È chiaro che per affrontare la crisi sia indispensabile uno sforzo e un impiego di risorse senza precedenti. In questa fase occorre proteggere l’economia italiana dal collasso, infondendo liquidità, ed evitare la svendita di asset strategici a Paesi stranieri (soprattutto a quelli non democratici, Cina in primis). Tuttavia, la soluzione non può essere un nuovo capitalismo di Stato, con le partecipazioni statali, le nazionalizzazioni o nuovi casi Alitalia. Le aziende e le filiere produttive gestite con i soldi dei contribuenti dagli amici dei potenti di turno fanno la fine che hanno fatto in passato: carrozzoni inefficienti che producono più corruzione che utili e nuovi posti di lavoro.
Un altro errore da evitare è trasformare l’interesse nazionale nella legittimazione dell’accanimento terapeutico per tenere in vita ogni impresa di medie o grandi dimensioni, senza entrare nel merito di cosa sarebbe davvero utile per il Paese e, soprattutto, per i suoi cittadini. Che esistano interessi nazionali sensibili, soprattutto in alcuni settori strategici, e che questi siano collegati alla politica estera è un fatto innegabile, ma la convinzione che il rafforzamento o la nascita di aziende di Stato sia il vero o l’unico strumento per tutelarli è un falso mito, largamente e trasversalmente diffuso in Italia.
Un esempio della nostra storia recente. Nel dopoguerra, la ricostruzione dell’Europa libera e democratica sarebbe stata impossibile senza gli aiuti americani e senza abbondanti approvvigionamenti di petrolio a buon prezzo. In Italia, nacque la compagnia petrolifera di bandiera, l’ENI di Enrico Mattei, e iniziò l’affermazione del capitalismo di Stato come strumento del controllo politico sullo sviluppo economico del Paese. Tuttavia, per quanto originale, l’azione dell’ENI e dell’Italia, così come quella dei loro omologhi europei, ricoprirono un ruolo marginale nello scacchiere petrolifero internazionale.
Furono gli Stati Uniti, attraverso l’alleanza con l’Arabia Saudita, a garantire la stabilità dei prezzi e la certezza degli approvvigionamenti energetici per l’Europa, e ciò avvenne con poche eccezioni, ovvero fino, ma anche oltre, la crisi del ’73. Nel caso del petrolio, la ricetta di Washington per la tutela del proprio interesse nazionale – che inglobava quello europeo – non si attuò attraverso aziende di Stato, bensì con una strategia che prevedeva un ruolo attivo, ma indiretto, del cartello delle compagnie petrolifere americane in politica estera.
Questa linea ebbe uno dei suoi momenti topici quando, a partire dal ’50, il governo americano favorì le proprie compagnie introducendo la deducibilità fiscale delle royalty petrolifere pagate ai Paesi produttori, per acconsentire alla richiesta di un aumento dei margini di profitto da parte dei sauditi. Tale cambiamento fu indotto dall’aggressiva azione del petroliere Paul Getty, titolare della Getty Oil, che ottenne una concessione offrendo una royalty più che doppia rispetto a quella pagata dalla ARAMCO, il consorzio delle compagnie angloamericane in Arabia.
L’operazione di Getty era una spada di Damocle sulla stabilità petrolifera. Le grandi compagnie difficilmente avrebbero consentito una riduzione unilaterale dei propri profitti senza che i prezzi del greggio subissero un rialzo, compromettendo quindi l’equilibrio internazionale. D’altro canto, le esigenze dell’Arabia Saudita avevano un loro peso specifico per la politica estera di Washington. Solo con l’intervento di George McGhee, Sottosegretario di Stato incaricato per il Medio Oriente, anch’egli petroliere di successo, si riuscì a trovare una soluzione di mediazione tra gli interessi delle società petrolifere e quelli nazionali attraverso una sorta di maxi-incentivo fiscale: con una legge federale si stabilì che per ogni dollaro pagato ai Paesi produttori corrispondesse un dollaro in meno pagato alla casse del tesoro degli Stati Uniti. In sostanza, il Congresso approvò un finanziamento indiretto alle compagnie petrolifere, o ai sauditi, a seconda dei punti di vista.
Come riportato da Leonardo Maugeri, l’intervento fu escogitato su esplicita raccomandazione del National Security Council, il principale organo che consiglia e assiste il Presidente degli Stati Uniti in materia di sicurezza nazionale e politica estera. Dunque, per garantire l’equilibrio politico-energetico nazionale, Washington non operò improbabili nazionalizzazioni, ma, più semplicemente, scelse di utilizzare la leva fiscale. L’operazione non fu gratuita, ma nessun cittadino americano dovette sobbarcarsi il rischio di impresa – e di perdite – qualora fosse finita la luna di miele petrolifera in Arabia Saudita. A dimostrazione di come uno Stato forte, che tutela i propri interessi anche interferendo negli affari economici, non necessariamente debba possedere aziende o mezzi di produzione, con il relativo fardello della gestione diretta, oltre che dei costi da sostenere.
Tornando ai nostri anni Venti, se in tema di welfare l’Europa resta – e ci auguriamo possa rimanere a lungo – un esempio ineguagliato di civiltà e progresso, dal punto di vista dell’incisività della politica estera e industriale, connessa con la tutela degli interessi nazionali e strategici, gli Stati Uniti costituiscono ancora il riferimento democratico a cui guardare. La patologia europea dell’azienda di Stato e del Golden Power non sta facendo gli interessi dei cittadini europei, né sta favorendo un livello di crescita duraturo in grado di sorreggere i diritti sociali a cui siamo affezionati. Ed è miope pensare che imprese gestite da piccoli Stati nazionali siano in grado di reggere una competizione globale sempre più spinta e stressante. Anche in questo caso, l’Europa federale risulta il passo necessario per risolvere le contraddizioni e i limiti del Vecchio Continente.
Superata la crisi sanitaria, in Italia non servirà una nuova Iri, piuttosto uno Stato che protegga e promuova chi ricostruirà l’economia italiana, dalle startup alle grandi imprese, e che si doti di un serio piano industriale nazionale, che non vuol dire assumere la regia dello sviluppo economico, ma creare un sistema fertile per lo studio, la ricerca, l’innovazione, il riconoscimento del merito, l’impresa e l’attrazione di investimenti. Uno Stato con meno aziende pubbliche e più scuole, università, infrastrutture e meno tasse sul lavoro. Il vero interesse nazionale per l’Italia è un nuovo investimento sul suo capitale umano. Tutto ciò è la chiave per un’economia più dinamica e forte nel lungo periodo, ma è anche il presupposto per allargare lo spazio delle opportunità e far ripartire il nostro ascensore sociale.