debito pubblico grande

La politica italiana è paradossalmente accomodata in una sorta di “loved egyptian night”, cioè in una condizione di schiavitù economica lenita (e aggravata) dalla droga del denaro facile, al punto di vagheggiare la debito-dipendenza come una condizione di grazia, se non di salute.

Il problema del debito non sembra essere più un problema, ma un passepartout per la felicità. Certamente ora fare debito è terribilmente facile, oltre che, per le note ragioni, terribilmente necessario, ma visto che il nodo della sua sostenibilità economica non sembra essere attuale, si è rimosso il problema dell’inevitabile e lievemente differito redde rationem.

Non che manchino i campanelli di allarme: gli ultimi dati di Bankitalia hanno registrato un nuovo record del debito pubblico, che ha raggiunto 2.680,5 miliardi, avvicinandosi alla soglia psicologica dei 2.700 miliardi. Il macigno del debito sta crescendo anche se oggi è nascosto sotto il tappeto della pandemia e delle centinaia di miliardi di euro che la BCE e la Commissione stanno impegnando per tenere l’Italia agganciata al treno dell’Ue.

Per quanto dunque il problema sia di fatto attualmente “neutralizzato”, il debito pubblico sarà nei prossimi anni – appena si tornerà a una qualche normalità – la principale emergenza non solo dei conti dello Stato, ma della vita economico-sociale del Paese.
Come spiega Mario Seminerio, l’agenzia di rating Fitch calcola che con un tasso di crescita annuale del 4% e un saldo primario in pareggio si raggiungerebbero i livelli di debito pre-pandemia nel 2030. Tuttavia, tale scenario potrebbe essere fin troppo roseo se la politica non decidesse di affrontare il tema: con una crescita annua dell’1% e un avanzo primario del 2% ai livelli pre-pandemia si tornerebbe nel 2086.

La differenza, ad oggi, è che il costo medio del debito pubblico è crollato (dal 0,93% del 2019 al 0,59% nel 2020) e ciò rende il debito pubblico “sostenibile”. Nondimeno questa situazione si appoggia (principalmente) sugli acquisti della BCE e sulla fiducia generata da Draghi. Tali condizioni non sono eterne, e, molto probabilmente, potrebbero già parzialmente venire meno a seguito delle prossime elezioni.

La sfida è ora, come ha ricordato Draghi e come ricordano molti altri economisti, fare “debito buono” ovvero far sì che gli investimenti (compresi, soprattutto, quelli del Recovery Plan) abbiano un moltiplicatore adeguato a generare una crescita sufficiente per ristabilire gli equilibri fiscali nei prossimi anni e rendere il debito sostenibile. La crescita diviene una priorità per evitare che il debito in futuro vada a soffocare definitivamente l’economia italiana. Tuttavia, come ha notato Veronica De Romanis, la crescita da sola potrebbe non essere sufficiente per disinnescare la bomba ad orologeria che il nostro debito rappresenta. Secondo De Romanis per ricondurre le finanze pubbliche in linea, servirebbe anche una spending review, anche al fine di portare il disavanzo primario all’1% e da lì procedere verso una graduale riduzione del debito.

Si può, quindi, dedurre quanto sia opportuno che il Recovery Plan venga speso con un’impostazione “intergenerazionale”, ovvero, più in generale, con grande attenzione al ritorno, al moltiplicatore degli investimenti non solo e non tanto “per i giovani”, ma ancor prima proprio per il futuro dell’economia italiana.

Tuttavia, se è vero che il pericolo di una crescita non sufficiente (e di una spesa sempre eccessiva) è una minaccia pressante, come in un conto alla rovescia, anche per un possibile “ritorno” dell’effetto snowball, è altresì vero che “generazionalmente” i conti dell’Italia sono sempre stati “alla rovescia”.

Il debito fuori controllo purtroppo non è una novità imposta dalla crisi economica causata dal Covid ma è da sempre in Italia un modo per regolare i problemi politici presenti facendoli diventare problemi futuri. Fare debito non significa altro che imporre più tasse domani: in questo modo, si tolgono opportunità e libertà economiche non solo ai giovani, ma anche a tutti i contribuenti futuri. Se, poi, si considera che – solo come esemplificazione - nel 2018, già prima della crisi Covid, il 32% delle tasse versate da contribuenti IRPEF andava in pensioni ed interessi sul debito, si comprende chiaramente la ratio del “cannibalismo” economico che caratterizza non solo i rapporti “finanziario-generazionali” in Italia, ma proprio la considerazione e la visione di futuro (per tutti) che ha la politica italiana.

Il debito pubblico crescente e la suddivisione della spesa pubblica (e, dunque, anche dell’impiego delle risorse ottenute a debito) ha rappresentato in Italia, anche prima della pandemia, una importante questione di “equità” fra generazioni. A titolo di esempio si può considerare come nel 2017 la spesa pubblica per l’istruzione – pari a 66,1 miliardi di euro – fosse inferiore alla spesa in interessi sul debito e spese collegate - pari a 69 miliardi di euro - ed è bene notare come, all’interno della spesa per l’istruzione, quella per l’università fosse solamente di 5,5 miliardi. Il fardello della spesa in interessi sul debito va a pesare sugli attuali e futuri (giovani) lavoratori, con una (necessaria) maggiore tassazione, riducendo le loro opportunità economiche di lavoro e di impresa e di fatto pregiudicando la loro libertà economica.

Nel 2020 la spesa pensionistica in Italia ha raggiunto un picco pari al 17% del PIL (dovuto anche all’introduzione di quota 100). A fronte di una spesa pubblica focalizzata su pensioni ed anziani, in realtà, come si evince dai dati Istat, la povertà in Italia riguarda principalmente i giovani. Di fatto, per quanto riguarda la povertà assoluta, questa tra i minori supera l’11% ed è del 9% per quanto riguarda i nuclei familiari la cui persona di riferimento ha tra i 18 e i 24 anni, contro un’incidenza del 5,1% nei nuclei over 65 (dati pre-Covid).

Un rapporto Istat del 2016 aveva dimostrato come mentre l’intervento redistributivo dello Stato italiano diminuisca effettivamente (e sostanzialmente) il rischio di povertà nella classe di età degli over 65, esso penalizzi i giovani: questi ultimi, infatti, a seguito dell’intervento pubblico vedono addirittura aumentare il proprio rischio di povertà ( dal 20,4% al 25,1% tra i minori di 14 anni, dal 19,7% al 25,3% nella fascia di età dai 15 ai 24 anni, dal 17,9% al 20,2% nella fascia dai 25 ai 34 anni).

Quanto si evince da tali dati è proprio una questione che potremmo definire di “conti alla rovescia”, di una incredibile contraddizione logico-razionale tra quanto rivelano gli indicatori economici e le politiche che si decidono di attuare. Questa grave contraddizione si traduce in un problema di equità tra generazioni e di vera e propria disuguaglianza nelle libertà: i giovani dovranno farsi carico tramite una tassazione, presumibilmente sempre più oppressiva, della popolazione anziana e pensionata sempre in aumento. E anche la demografia, in Italia, gioca pesantemente contro i giovani. Le future generazioni non solo, quindi, godranno di vantaggi derivanti dalla spesa in welfare minori rispetto a quelli dei loro genitori, ma saranno gravate da una tassazione che limiterà le loro opportunità di lavoro e di impresa, che comprometterà la loro libertà economica e renderà sempre più arduo per loro qualsiasi tipo di crescita individuale e di progetto economico.

Con un debito pubblico quasi al 160% del PIL, qualora la crescita non dovesse essere sufficiente e qualora i tassi dovessero tornare ad alzarsi, si avrebbe la catastrofe economica verso cui eravamo avviati già nel 2018, aggravata da un ulteriore deterioramento dei conti pubblici. Non ci sarà sempre il Covid a sospendere il tempo dei mercati finanziari, non ci sarà sempre Draghi a fare da garante se il sistema economico riprenderà ad avere le sembianze di un mero sistema di accaparramento delle risorse, senza attenzione al “raddrizzamento” dei conti e senza attenzione a una distribuzione della spesa più efficiente e razionale.

L’emergenza debito, se dovesse essere effettivamente affrontata dalla politica, sarebbe anche una vera opportunità per riformare l’economia e salvarla dai mali atavici da cui è attanagliata. Oltre a rappresentare l’occasione per rimodulare l’impiego di denaro pubblico in modo più “generazionalmente” equo (e produttivo), affrontare la questione del debito significa anche confrontarsi con le radici corporative e consociative di un’economia di potere e di relazione, in cui il controllo politico del “pubblico” e la fortuna economica del “privato” sotto rette da una fitta rete di scambi e di complicità e dove anche i voti elettorali diventano parte di questo mercato. Il debito pubblico dalla metà degli anni 70 è stata la principale infrastruttura politica di questo sistema e la perfetta fotografia “morale” della classe dirigente italiana. E non sarà certo il Covid a far scomparire con un abracadabra il peso questo passato e la sua ipoteca sul nostro futuro.