Alitalia, nazionalizzare per fallire. Il solito refrain
Innovazione e mercato
Il 31 ottobre scade l’ennesima proroga della gara infinita per la vendita di Alitalia. Riassunto degli ultimissimi capitoli: il 24 aprile 2017 un referendum dei dipendenti boccia clamorosamente il piano di salvataggio (che in realtà è anche un ambizioso piano di crescita) finanziato dai capitali di Etihad, proprietaria ancora oggi del 49% della compagnia.
Segue amministrazione controllata, con nomina il 2 maggio 2017 di tre commissari indicati da Gentiloni/Calenda: Stefano Paleari (ingegnere esperto di industria aeronautica), Enrico Laghi (commercialista esperto di fallimentare, già commissario dell’Ilva), Luigi Gubitosi (manager, già CEO di Rai e Wind). L’idea è gestire in massimo sei mesi l’amministrazione emergenziale dell’azienda (che perde diversi milioni al giorno e ha cassa ormai vuota) e un’asta per la vendita a un partner industriale. Per aiutare il nobile fine, lo Stato si sobbarca un “prestito ponte” di 900 milioni da restituire anche questo entro sei mesi.
Com’è andata? Ne sono passati 18 di mesi e siamo ancora qui. L’asta non si è mai conclusa, la fine più volte posticipata e il tutto tenuto ambiguamente aperto dal Ministro Di Maio fino ad oggi. Il prestito? Tutto lì, in scadenza il 15 dicembre e con la spada di Damocle dell’investigazione aperta dall’Antitrust europeo ad aprile perché il prestito violerebbe le norme per gli aiuti di salvataggio (“rescue aid”, di solito vincolati a sei mesi, qui siamo a 18, e si parla di proroghe), con il rischio che se venisse considerato come un aiuto di Stato dovrebbe essere ripagato immediatamente insieme a eventuali misure risarcitorie.
L’azienda? Unica buona notizia: in un mercato in crescita a doppia cifra e tornato agli utili grazie al petrolio depresso, persino Alitalia è tornata nel terzo quadrimestre del 2018 a uno striminzito attivo di 2 milioni. Oculata gestione dei commissari, ristrutturazione dei costi, rinegoziazione dei contratti (soprattutto leasing aerei) e focalizzazione su rotte più redditizie (vedi lunga percorrenza) hanno portato i loro frutti, e ora l’azienda è effettivamente più sana di quanto non lo fosse alla fine della cura Etihad. Ma non può durare a lungo: il petrolio si sta apprezzando, gli investimenti non sono ritardabili ulteriormente.
Ora, all’alba della scadenza di quest’ennesima vertenza affrontata dal Ministro all’ultimo minuto e senza una visione strategica né uno straccio di pianificazione di base, i Nostri si trovano di fronte a un bivio: nazionalizzare (leggi deficit, una leva un pelo già tirata di questi tempi) o finalizzare la vendita (a dire il vero un po’ a sconto, realisticamente a Lufthansa)?
La visione politica espressa dal vicepremier di Pomigliano sembra chiaramente andare nella direzione della nazionalizzazione. Ma in che termini? Cassa Depositi e Prestiti, veicolo d’elezione dei pruriti di leniniana memoria, non può per statuto, come noto, intervenire nell’acquisto di società al limite della bancarotta. E allora l’idea, trapelata il 7 ottobre sul Sole24Ore: creare una società a partecipazione mista di MEF, Ferrovie e altri soggetti statali (Poste? Leonardo?) con core business ben distanti. Tanto, del fatto che siano soggetti quotati e che le loro azioni potrebbero deprezzarsi in mano ai risparmiatori italiani, perché mai dovrebbe interessare il Governo del Cambiamento? Con CDP (casomai vi foste preoccupati) che finanzia i mutui per l’acquisto degli aerei a lunga percorrenza. E con un misterioso partner cinese di minoranza che nella visione dei Toninelli e Gerace investirebbe gioiosamente dove hanno già fallito tutti, fino a 2 miliardi di euro in un piano industriale ancora tutto da scrivere, per non avere controllo diretto delle operazioni.
Il tutto col patriottico obiettivo di creare un fantasioso polo della mobilità multimodale con bandiera tricolore al vento (e cinese a mezz’asta) che farebbe finalmente una valanga di sinergie: non li vedete già i risparmi lampanti del far lavorare fianco a fianco le hostess e i controllori? Una “academy” congiunta, polo d’eccellenza mondiale - in riva al Tevere, perché no? - che insegni a pilotare con la mano destra i Boeing 777 e con la sinistra i Frecciarossa 1000? Salire in Espresso Notte a Rogoredo e trovarsi come per magia a Tokyo Narita? Magnifiche sorti e progressive, se non fosse che FS è già stata appena azzoppata (cacciato Mazzoncini colpevole dei migliori bilanci di sempre, di aver sponsorizzato una quotazione in Borsa entro l’anno e una fusione di Italferr con Anas per creare un polo dell’ingegneria e dei lavori pubblici) e che il nuovo CEO Battisti dichiarava solo il 5 ottobre che la “priorità sono i pendolari e lo sviluppo del trasporto regionale” (forse intendeva della regione EMEA?). Nel frattempo Di Maio convoca i sindacati il 12 ottobre: scommettiamo che si finirà tutti sul balconcino a festeggiare anzitempo presunti successi tutti ancora da costruire?
Per concludere: c’è innanzitutto l’ennesimo danno di credibilità per la gestione dilettantesca, senza tempi certi e con Di Maio che si sente nel cortile della scuola: il pallone ce l’ho io e faccio giocare chi mi pare e quando mi pare. C’è una breve e fortunosa finestra di opportunità dovuta a una gestione ordinaria del business in netto miglioramento e che può permettere migliori negoziazioni ma che non può permettere di credere che si possa continuare da soli ancora a lungo (ci sono in pratica solo 3 cordate internazionali di compagnie aeree oggi, non è immaginabile inventarsene una nuova, con buona pace di Giggino).
Ma soprattutto c’è l’urgenza di trovare una soluzione definitiva che, sia nel caso della vendita completa che del parziale intervento di veicoli pubblici, preveda un partner industriale internazionale importante e di lungo periodo, e non l’ennesimo fantasioso palliativo fuori mercato e di scarsa prospettiva pagato dalle tasse e dai risparmi azionari degli italiani nascosto dietro il dito dei “salviamo i posti di lavoro” o “non vendiamo ai tedeschi”.
Altrimenti andiamo pure avanti così, nazionalizziamo alla cieca per fallire di nuovo.