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La vicenda del cosiddetto Decreto Dignità porta alla luce alcuni aspetti fino ad ora solo prevedibili. Innanzi tutto, una questione di dettaglio. Il minore dei fratelli De Regge che affiancano il prof. Nessuno alla presidenza del consiglio, benché sia titolare del Lavoro e dello Sviluppo economico (Di Maio ha voluto abbinare i dicasteri perché si affacciano ambedue su via Veneto, così gli è sufficiente attraversare la strada senza dover usare una macchina blu) fa ancora confusione quando si tratta di citare in modo corretto le leggi.

Così, nei giorni scorsi, si è vantato di aver colpito a morte – con il suo decretino – niente meno che il jobs act, a cui gli scalzacani del nuovo regime attribuiscono la responsabilità di una condizione di precariato, anch’essa percepita piuttosto che effettiva. Infatti la riforma del lavoro a termine - essendo contenuta nel decreto Poletti del 2014 - non ha nulla da spartire con la legge delega e gli otto decreti attuativi che costituiscono il pacchetto definito jobs act.

E, paradossalmente, il giovane ministro non si è neppure accorto che la disciplina prevista nel decreto – a proposito del rapporto tra contratto a termine e sue causali giustificative - è molto simile a quanto disposto dalla riforma del mercato del lavoro del ministro Elsa Fornero (legge n.92 del 2012). Salvo ricordare, en passant, che le esigenze riconosciute alle imprese per poter procedere a dei rinnovi (scaduto il limite dei 12 mesi del primo contratto e all’interno di uno complessivo di 24 mesi) sono le medesime previste nell’articolo 50 della Carta dei diritti universali dei lavoratori (scusate se è poco!) predisposta dalla Cgil con il sostegno di milioni di firme ed illustrata - poco dopo la sua elezione - all’ayatollah Roberto Fico (al quale basterebbe indossare un turbante bianco ed una palandrana nera) ad opera di una Susanna Camusso stupita di essere stata presa sul serio.

Ma "dove sta il beef" cominceranno a chiedere i cortesi e pazienti lettori. Le reazioni al decreto dignità dimostrano che, in questo caso (ma ce ne saranno altri, sulle pensioni e non solo) l’unica forza di "opposizione" sarà la Lega di Matteo Salvini, più sensibile ai "richiami della foresta" del mondo dell’impresa che vede ridimensionato lo strumento privilegiato per le assunzioni a causa della reintroduzione dell’obbligo di motivare le esigenze produttive che comportano l’utilizzo del lavoro a tempo determinato e quindi di correre il rischio di doversi difendere a posteriori in giudizio e subire una condanna comportante la trasformazione a tempo indeterminato ex tunc del rapporto di lavoro, ovviamente con tutti gli annessi e connessi normativi ed economici.

Con questo provvedimento vengono neutralizzate le organizzazioni sindacali (la Cgil addirittura mostra soddisfazione nel vedere accolta una propria rivendicazione). Ma anche il Pd è in imbarazzo. Gli esponenti dem che hanno rilasciato delle dichiarazioni si sono limitati a dire che questa modifica l’avevano pensata anche loro (e taluni persino proposta, inascoltati dal perfido Matteo Renzi, nel corso dell’ultima legislatura). Chi può sottrarsi, a sinistra, alla lotta alla precarietà, quando, per anni, si è coltivata (con la complicità di un sistema mediatico irresponsabile) la rappresentazione di un Paese ormai prossimo a schiavizzare i lavoratori, soprattutto se giovani?

In sostanza proprio nel momento in cui sono in corso incrementi positivi dell’occupazione e riduzioni del tasso di disoccupazione, è ormai convalidata l’idea che tale occupazione sarebbe "cattiva", proprio perché in prevalenza a termine, dimenticando che l’Italia ha uno dei più elevati tassi europei (e non solo) di impieghi stabili. Di quel milione di nuovi posti di lavoro complessivi creati dal momento dell’entrata in crisi, il 57% è a termine, il 43% a tempo indeterminato.

Ma è utile fare anche un po’ di confronti internazionali per capire come davvero stanno le cose. Nel 2016, l’anno di cui si hanno i dati un po’ di tutti i Paesi, l’occupazione a tempo indeterminato è stata in Italia pari all’86,0%, sopra la media europea che è risultata pari all’84,4%. Più avanti di noi la Germania, che ha a tempo indeterminato l’86,8% dei suoi occupati, ma meglio della Francia (83,9%), della Svezia felix (83,9%) e persino dell’Olanda (79,4%). Il neoministro appartiene alla scuola di coloro che hanno la seguente convinzione: le aziende per far "girare le macchine" sono costrette ad assumere; se il governo, pertanto, modifica o abroga le norme che consentono rapporti più flessibili, le aziende dovranno per forza avvalersi di lavoratori stabilizzati. Ma questa tesi non è dimostrata; anzi di solito accade il contrario.

"Il cavallo non beve": le imprese, nel contesto di un mercato molto dinamico ed incerto, non rischiano di caricarsi di manodopera a cui non sono sicure di garantire una continuità occupazionale, che dipende dall’andamento oscillante degli ordinativi. Preferiranno non assumere. Ciò influirà anche sulla crescita economica: non solo perché il numero dei nuovi occupati subirà una contrazione (con effetti negativi sul reddito disponibile); ma soprattutto perché le aziende eviteranno di allargare il loro campo di iniziativa se ciò dovesse comportare nuove assunzioni a tempo indeterminato. Per soddisfare tali esigenze è operativa la somministrazione.

Ma che cosa possiamo aspettarci da un ministro che ha paragonato le agenzie del lavoro al caporalato e che pretende di rilanciare i centri per l’impiego senza sapere come? Per concludere, nessuno farà un’opposizione seria ed impegnata contro il decreto (in)degnità. A contrastare queste misure saranno, purtroppo, i trend negativi delle statistiche del lavoro.