Asini

Sin dal suo insediamento, il governo Renzi ha avvertito l’onere di dover rispondere alle istanze politiche dell’elettorato più giovane. Non poteva essere altrimenti, viste l’età e la constituency dell’ex premier, riflettute su una comunicazione dallo stile giovanile (qualcuno dirà giovanilista) improntata sul racconto della risoluzione del conflitto generazionale.

In effetti, in un primo momento, il consenso dell’elettorato under-35 è stato la chiave del successo del segretario del PD. L’idillio, tuttavia, ha cominciato a incrinarsi con l’introduzione del jobs act. Di fatti, il dramma delle policy a lungo periodo (e la ragione per cui se ne vedono così poche) è che gli elettori sono richiamati alle urne ben prima che se ne possano apprezzare gli effetti.

Nell’immediato, i nuovi lavoratori si sono ritrovati ad essere i primi e unici soggetti della mobilità nel mercato del lavoro italiano. Perché - si sono chiesti - si comincia sempre da noi? Agli occhi di tali elettori, il solo fatto che non si potessero revocare certe tutele a chi le ha acquisite in passato non è stato sufficiente, così come non sono bastate le garanzie fornite dal contratto jobs act (ferie, malattia, maternità, tutele crescenti) rispetto ai vecchi co.co.co e co.co.pro con cui era professionalmente inquadrata gran parte dei giovani precari. Da chi aveva eretto la fine del conflitto generazionale a emblema della propria attività politica i giovani pretendevano politiche più eque, in grado finalmente di interrompere il corto circuito di padri e nonni che diventano un ostacolo per l’occupabilità di figli e nipoti - soprattutto in presenza di un sistema previdenziale che non garantisce copertura per le nuove generazioni.

Così, non vedendosi attribuito il merito oggettivo di essere riuscito a riformare e ammodernare il mercato del lavoro italiano e di avervi comunque facilitato l’ingresso a migliaia di giovani, Renzi è corso ai ripari in maniera maldestra, con trovate discutibili che gli garantissero effetti nel breve periodo. Peccato, tuttavia, che si sia trattato di effetti non intenzionali e, come spesso accade, neanche dei più auspicabili.

L’iniziativa del voucher cultura da 500 euro per circa 550mila ragazzi che hanno compiuto diciotto anni nel 2016 rientra a pieno titolo nella suddetta categoria, e ne è forse l’incarnazione peggiore. Nata con l’intento (non dichiarato) di tenere ben salda la presa sul bacino elettorale dei giovanissimi e, al tempo stesso, dimostrare l’attenzione del governo verso il tema del gap culturale tra i ragazzi italiani e quelli di molti paesi occidentali, la misura ha fallito in entrambi i propositi.

Al referendum dello scorso 4 dicembre, infatti, la fascia elettorale compresa tra i 18 e i 34 anni è risultata quella che ha espresso la percentuale più alta di voti contrari alla riforma costituzionale del governo: ben il 68%, secondo l’Istituto Piepoli. D’altronde, anche all’interno del PD, qualcuno ha colto la natura squisitamente elettorale del voucher, organizzando eventi in cui non si illustravano solo le ragioni del sì al referendum, ma anche i modi per usufruire del bonus cultura per i nati nel 1998.

Come ciliegina sulla torta, la scoperta che molti diciottenni rivendono online e a prezzi ridotti i prodotti culturali (soprattutto libri) acquistabili con il credito del loro voucher, avvenuta grazie alla denuncia di una cittadina che si è rivolta a La Repubblica di Bari. "A te conviene, perché compri a metà prezzo, e io ci guadagno, visto che non leggo”. Il fulcro della questione è tutto nelle parole di uno dei ragazzi che si sono ingegnati per aggirare l’uso esclusivamente personale del voucher e guadagnare denaro.

Guarda caso, l’idea di investimento nel proprio futuro del legislatore non coincide con quella di un diciottenne. Sono gli effetti non intenzionali che scaturiscono da politiche keynesiane, volte ad allocare forzatamente risorse pubbliche laddove non ve ne è domanda, sperando anzi che il sussidio, che in questo caso assume la forma di un voucher, funga proprio da sostegno a tale domanda.

Se non bastasse, la vicenda svela una drammatica mancanza di comprensione, da parte del governo Renzi, delle ragioni alla base del gap culturale e del disinteresse dei giovani italiani: nella maggior parte dei casi, a mancare non sono le possibilità economiche, ma l’istruzione. Un’istruzione che la scuola pubblica non è in grado di impartire, poiché troppo spesso votata alla mnemotecnica e al nozionismo, anziché stimolare interessi e aiutare i ragazzi a comprendere quali siano le loro propensioni e a svilupparle.

Il triste epilogo del voucher cultura rivela un’incapacità di fondo del governo Renzi di intercettare non tanto i bisogni effettivi degli italiani, quanto i bisogni che gli italiani credono di avere. Il segretario del PD, che ha avuto l’incontestabile merito di aver scorto delle cose necessarie da fare (riforme del mercato del lavoro e delle istituzioni) e il coraggio di proporre soluzioni di buona qualità, non è stato in grado di individuare le sue personali isole Falkland. Per garantirsi il sostegno degli elettori, Margaret Thatcher seppe identificare nella guerra delle Falkland la sua battaglia utile ai fini del consenso, senza la quale (molto probabilmente) non sarebbe stata rieletta per portare avanti il lavoro necessario e vedere finalmente gli effetti di lungo periodo delle sue politiche economiche.

Al contrario, Renzi non ha saputo dare agli italiani nulla che li potesse convincere a riporre fiducia nelle sue politiche necessarie. Il fallimento delle sue battaglie non necessarie ma politicamente utili è la causa principale del fallimento delle sue battaglie necessarie e imprescindibili.