Gli schiaffi di Francesco dal pulpito dell'antipolitica
Editoriale
La Chiesa di Woytila e Ratzinger, in Italia, rispose alla fine dell'unità politica dei cattolici attraverso la costruzione di un'unità cattolica trasversale sui temi eticamente sensibili. La cosiddetta "questione antropologica", cioè la dottrina sulla morale sessuale e riproduttiva, sull'etica familiare e sulle questioni del fine vita, non rappresentava solo il centro del magistero cattolico, ma anche il terreno di scontro e di compromesso con la politica italiana.
In nome della lotta alla libertà relativistica della società secolarizzata, la Chiesa ruiniana ha perdonato le licenze pubbliche e private del defensor fidei meno plausibile, ma più disponibile, Silvio Berlusconi e negligentemente sorvolato sulle caratteristiche culturali della sua coalizione, che pure parecchi interrogativi e qualche scandalo suscitavano in vasti settori del mondo cattolico.
La Chiesa di Wojtyla e di Ratzinger era una Chiesa combattente, abile a far pesare, più che a far contare, i voti (sempre meno cospicui) che era in grado di muovere e consapevole del carattere minoritario della sua battaglia. Era una Chiesa che stava in trincea, lungo un confine (quello, appunto, dei cosiddetti valori non negoziabili) che neppure i credenti interpretavano in modo così radicale ed esclusivo.
Quella di Bergoglio è una Chiesa che ha scelto di giocare con la politica italiana una partita del tutto diversa, rifiutando forme di collateralismo imbarazzanti e accentuando il carattere super-politico della presenza cattolica, ma anche scegliendo temi di impegno e predicazione più immediatamente "popolari". Papa Francesco non è affatto un riformatore della dottrina sui temi cosiddetti sensibili (divorzio, contraccezione, aborto..) e ne chiede un'interpretazione meno divisiva e intransigente sul piano pastorale. Non sembra però essere questa la ragione per cui la "questione antropologica", almeno in Italia, ha perso di centralità nel discorso politico della Chiesa.
Il motivo pare essere decisamente più strategico. Bergoglio sente e cerca un contatto innanzitutto emotivo e sentimentale con il suo popolo e avverte il suo impegno pastorale come un esercizio di prossimità a ciò che più sembra angustiare, o scandalizzare, l'anima dei credenti. Papa Francesco non è, come Ratzinger, un Papa del dissenso, interessato a far pesare una differenza cattolica dissonante e perfino urticante, ma un Papa del consenso, convinto di dovere amplificare il sentimento più diffuso, ma non necessariamente più sincero, del popolo cattolico.
Le sue parole di ieri sono un segno di questa inclinazione. La rappresentazione, che emerge metaforicamente dall'omelia del Pontefice, della corruzione politica come di una congiura ordita dalla "classe dirigenziale" contro il "popolo", se corrisponde a quanto i suoi fedeli volevano sentire e a quanto la vulgata politicamente corretta accredita come verità ufficiale, è più simile a una caricatura che a una fotografia del "caso Italia". Un confessore severo non avrebbe dovuto ricordare, davvero "scandalosamente", che la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite è la logica con cui ha funzionato per decenni la nostra "democrazia di scambio", a tutti i livelli, nelle promesse dei politici come nelle richieste dei cittadini, e che non ci sono troppi innocenti, neppure nella cosiddetta società civile, autorizzati a scagliare la prima pietra?
È possibile che il Papa venuto dalla fine del mondo ritenga comunque necessario e prioritario prendere le distanze, con piglio scontroso, da una politica abituata a cercare e in genere a trovare sponde di ogni tipo nei palazzi vaticani. Ma i suoi schiaffi da quel pulpito antipolitico non aiuteranno gli eletti a redimersi, né gli elettori a dirsi sinceramente (e cristianamente) la verità.