Brutto il voto di Israele all'Onu sull'Ucraina. Bruttissimo l'uso antisemita che se ne farà
Diritto e libertà

C’è da attendere che nell’armamentario della retorica antisionista, cioè antisemita sub specie politica, finirà anche il voto di Israele all’Assemblea generale delle Nazioni Unite contro la risoluzione presentata dai Paesi europei che, a differenza di quella statunitense, denunciava l’aggressione russa all’Ucraina e chiedeva il ritiro delle truppe di Mosca dai territori occupati.
E ci finirà grottescamente, visto che le frange più combattive per la liberazione della Palestina “from the river to the sea” sono anche pacifiste e dunque da tre anni chiedono il disarmo dell’Ucraina per propiziare l’unica pace possibile: quella imposta con la violenza dai carri armati di Putin.
L’occasione è però troppo ghiotta: come non usare la plateale contraddizione di un Governo che da una parte chiede (e non trova) solidarietà internazionale contro la guerra di aggressione di Hamas e dall’altra si allea all’Onu con l’aggressore dell’Ucraina?
Nel giudizio sul voto di Israele non penso si possa prescindere dal fatto che quello di Israele è stato un voto imposto dagli Stati Uniti, dal cui sostegno Israele continua a dipendere per la propria sicurezza e, nell’attuale contesto, anche un Governo diverso da quello di Netanyahu difficilmente avrebbe potuto sottrarsi all’allineamento obbligato alla Casa Bianca.
Nondimeno, si tratta di un voto catastrofico per Israele, come hanno modo di apprezzare non tanto quelli che odiano Israele in quanto stato ebraico – a cui questo voto fa molto comodo – ma quanti difendono lo stato ebraico proprio perché ha la forma che ha preso storicamente Israele, quella di una democrazia liberale e pluralista, che non solo riconosce al proprio interno, ma rispetta al proprio esterno i diritti umani fondamentali.
Anche considerando la natura necessitata del voto all’Onu, è più che ragionevole e legittimo domandarsi se la convergenza tra Trump e Netanyahu – anche, ma non solo sull’Ucraina – più che da una dipendenza dell’uno dall’altro non discenda da una piena consonanza di (con rispetto parlando) valori politici e attitudini morali, a partire dal totale disprezzo per ogni riserva di diritto rispetto alle scelte politiche. Consonanza che porta peraltro a pensare che Netanyahu possa essere per Israele ciò che Trump è oggi per l’America: un rischio esistenzialmente immenso e potenzialmente fatale.
Quel che non è legittimo è invece ciò che certamente succederà, cioè l’imputazione individuale a ogni singolo ebreo e a ogni singolo israeliano delle responsabilità del governo di Gerusalemme e l’imputazione collettiva a Israele delle scelte contestabili di un esecutivo che può essere politicamente rovesciato e il giudizio sul quale, in ogni caso, non può implicare un giudizio sulla legittimità dello Stato. Avviene così per tutti gli stati democratici, ma non per Israele: e non perché non sia democratico, ma perché è la democrazia degli ebrei.
È lo stesso meccanismo per il quale dal 7 ottobre 2023, qualunque cosa faccia Israele nella guerra di Gaza, si trova una ragione per chiedere agli ebrei di giustificarsi di esistere e di avere uno Stato e per esigere da loro un mea culpa penitenziale, quando non si trova anche una ragione per insultare e aggredire per strada quelli che portano la kippah. Però la ragione di tutto questo si chiama antisemitismo, non Netanyahu. Ed è una ragione che c'era prima e ci sarà anche dopo.
