Ostracismo penale, ergastolo civile. Sofri, Cuffaro e le persone ‘passate in giudicato’
Diritto e libertà
Ha detto Franco Miceli, candidato a sindaco di Palermo per il centro-sinistra, per attaccare Roberto Lagalla, candidato alla stessa carica per il centro-destra:
“Lagalla mente quando dice di non volere i voti dei mafiosi. C'era un modo di dirlo, lanciando un messaggio inequivocabile, non accettare pubblicamente l’appoggio dei condannati per reati connessi alla mafia Cuffaro e Dell’Utri. Invece - aggiunge - con il primo si sono abbracciati sul palco. Il secondo è bastato facesse un endorsement nei suoi confronti dall’Hotel delle Palme perché si ritirassero 4 candidati del centrodestra. E lui non mi pare proprio abbia mai rifiutato questo gradimento”.
Ha scritto Marco Travaglio, nella sua rubrica Ma mi faccia il piacere, su Il Fatto, replicando a Adriano Sofri che aveva ironizzato sul loro unico incontro, avvenuto qualche anno prima.
“Una volta (una sola infatti) ho incontrato Travaglio, due o tre anni fa, in un luogo affollato. L’ho salutato, gli ho rivolto un paio di frasi di circostanza. C’è quel modo di dire figurato, diventare verde dalla paura. Be’: è diventato proprio verde” (Adriano Sofri, Foglio, 27.5). Non capita tutti i giorni di ritrovarsi di fronte un assassino a piede libero, al Salone del Libro. Ma poi tre circostanze mi tranquillizzarono. 1) Chi entrava veniva perquisito. 2) Pietrostefani era già fuggito a Parigi. 3) Non ero di spalle”.
Miceli e Travaglio usano di fatto lo stesso schema: la macchia nella fedina penale come patente di impresentabilità antropologica e di infrequentabilità personale; l’ostracismo civile dei condannati come interdizione non dai pubblici uffici, ma dalla vita pubblica; la condanna all’invisibilità come prosecuzione della galera con altri mezzi e l’accettazione da parte dei condannati di questa pena politica accessoria, decretata a furor di popolo, come unica prova di ravvedimento.
In realtà in un paese intimamente trasformistico, in cui la maschera è la forma dell’identità e in cui nessuno può quindi considerarsi conforme o difforme, uguale o contrario alle rappresentazioni in cui si incarna – contenendole tutte, fungibilmente, in se stesso come un infinito repertorio di travestimenti – rischia di suonare incomprensibile o, dove compresa, sospetta l’idea che il sistema penale abbia una funzione costituzionale incompatibile con questa commedia carnevalesca e invece punti a riconsegnare il condannato alla comunità civile davvero diverso – si dice con termine equivoco: “riabilitato” – da come l’aveva preso in carico, in forza della sentenza di condanna.
Tutti, nell’idea della giustizia (in realtà: della vita) che va per la maggiore, invece rimangono uguali a se stessi, cioè a niente, perché di fatto non esiste nessuna identità reale che non sia quella decretata in tribunale in nome del popolo italiano e inestinguibile proprio perché non appartenente alla persona condannata, ma alla rappresentazione della condanna e alla sua impersonale perentorietà. Non esiste Adriano Sofri, non esiste Totò Cuffaro, esiste solo la loro maschera giudiziaria, per sua natura definitiva e “passata in giudicato”. Perché non passa in giudicato una sentenza – capite? – ma una persona.
Appare quindi una patetica finzione quella di riconsegnare alla società un non terrorista, già condannato per terrorismo. Un non mafioso, già condannato per favoreggiamento della mafia. In teoria un condannato esce dalla galera e dalle restrizioni alla libertà personali proprio perché può, non perché non deve, partecipare della vita civile, sociale e economica, e rientrare nel consesso umano come una persona, non come un vivente umano cui siano precluse prerogative personali di parola, di pensiero e di azione. Invece nella vulgata moralistica del principio di legalità il condannato è sempre condannato a vita e che, se pure esce dalla cella del penitenziario, non può uscire da quella figurata di una profilattica inesistenza.
Prova ancora peggiore di inaffidabilità del condannato è il rifiuto di accettare la sentenza come verità indiscutibile, non solo sulla sua colpa, ma sulla sua vita. I casi di Sofri e Cuffaro sono anche in questo analoghi, pur essendo i personaggi molto diversi. Entrambi sono stati condannati per un reato che è verosimile che abbiano compiuto, quando sono stati accusati di averlo compiuto. Un reato che può apparire una prosecuzione coerente della loro attività e identità del tempo: delle minacce di vendetta di Sofri contro Calabresi per la morte di Pinelli e della disponibilità universale di Totò vasa vasa verso tutti gli amici, mafiosi e no. Rimane il fatto che entrambi protestano legittimamente la propria innocenza e anziché ammettere la colpa, denunciano l’errore del processo che li ha condannati. E questo nell’Italia eternamente inquisitoriale è per principale oltraggio alla giustizia, perché rispettare le sentenze, a quanto pare, non significa accettarne l’esecuzione, ma riconoscerne la verità e il crisma di giudizio di Dio.
Tra tutte le ragioni per rifiutare la conoscenza e la compagnia culturale e politica di Sofri e Cuffaro l’unica civilmente inammissibile dovrebbe essere quella usata e abusata contro di loro e contro tutti i loro simili “passati in giudicato”: che sarebbero, quella conoscenza e compagnia, forme di compromissione con il male loro addebitato; che sarebbe, il rifiuto di piegarsi all’ergastolo civile dei condannati, una diserzione della guerra per il bene e per la giustizia.
Dovrebbe essere così in un Paese in cui al sistema penale fosse riconosciuta la sua funzione costituzionale e non quella, letteralmente eversiva, di istanza di tutela morale della società. Dovrebbe essere così in un Paese in cui l’onestà e l’innocenza non fossero diventate le maschere di scena della commedia degli inganni. Ma non è così, perché l’Italia è il Paese in cui il trasformismo si è fatto da pratica identità e a confermarlo è anche il modo disuguale e settario con cui la dignità civile dei già condannati viene riconosciuta o disconosciuta a seconda delle appartenenze. Cuffaro è per sempre un favoreggiatore della mafia, anzi un mafioso infrequentabile, anche per chi non avrebbe alcun problema ad accompagnarsi a Sofri in un dibattito culturale o in una campagna civile. Sofri è un terrorista e un assassino anche per chi accetta che Cuffaro torni a spargere, come ha sempre fatto, i suoi baci nelle campagne elettorali siciliane.
Fa eccezione Travaglio, che nella barbarie ha almeno una coerenza. Manca l’eccezione contraria, quella non barbara e civile, dei difensori dello stato di diritto, che, si potrebbe dire con Manzoni, non si concedono più di “uno sfogo segreto della verità” e di “una confidenza domestica”, persuasi che il buon senso non possa sfidare il senso comune del buttate la chiave (della cella del nemico).