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Nel film americano del 2020 “Una donna promettente”, viene raccontata la storia di una giovane la quale, poiché la sua migliore amica si è suicidata dopo aver subito uno stupro e il colpevole l’ha passata liscia, ha come unica ragione di vita farsi giustizia da sola di coloro che commettono violenze o non sono abbastanza intransigenti nel perseguirle (donne comprese). Se da un lato è più che condivisibile volere una giustizia che aiuti le donne vittime di violenze, dall’altro vi era una visione della società che incitava le femministe a farsi guidare unicamente dalla sete di vendetta mettendo in secondo piano la ragione, e a non voler riconoscere a nessuno il beneficio del dubbio.

La visione ‘giustizialista’ di “Una donna promettente” ne fece all’uscita il film simbolo del movimento #Metoo, portando ad un’involuzione nel modo in cui il cinema rappresenta certi argomenti; basti ricordare che nel film del 1989 “Sotto accusa” una ragazza violentata riusciva ad ottenere giustizia in tribunale anche grazie alla testimonianza di un ragazzo, a dimostrare che gli uomini non sono tutti violenti o complici.

In questo periodo, è importante riscoprire quei film che hanno fatto da portabandiera per il garantismo in ambito etico e giudiziario. Film che ci ricordano come garantire a tutti un equo processo per valutarne le colpe è un sistema che, per quanto imperfetto, è necessario per vivere in un paese civile.

Come raccontava nel 2020 un’analisi del quotidiano Il Dubbio, Uno dei primi registi nel panorama mondiale ad aver portato avanti questo tema è stato Alfred Hitchcock: ad esempio, nel film del 1927 “The Lodger” un normale inquilino viene sospettato dall’affittacamere di essere un serial killer che uccide ragazze bionde. Verso la fine, il protagonista fugge ammanettato e rimane impigliato ad una ringhiera mentre una folla inferocita tenta di giustiziarlo senza processo. In seguito, innocenti che vengono accusati ingiustamente si trovano in molti dei suoi film: si va dalla moglie incastrata dal marito per un omicidio (“Il delitto perfetto”, 1954) al musicista incolpato per una rapina (“Il ladro”, 1956), per arrivare all’agente pubblicitario scambiato per una spia e preso di mira da dei sicari (“Intrigo Internazionale”, 1959).

Un altro cineasta ad aver trattato temi analoghi, nell’America degli stessi anni, è Orson Welles: nel thriller del 1947 “La signora di Shanghai”, dove veste il ruolo sia di attore che di regista, interpreta un marinaio che dopo essere stato sedotto da una ricca signora, si ritrova incastrato per un omicidio da lei commesso. Mentre ne “L’infernale Quinlan”, uscito nel 1958, un capitano di polizia incastra i presunti colpevoli dei delitti fabbricando prove false.

Mettendo da parte il giallo e l’azione, della Hollywood degli anni ’50 va ricordato “La parola ai giurati”; come ha spiegato il critico cinematografico Pino Farinotti nel suo saggio del 2010 “Storie di Cinema” questo film, uscito nel 1957 e diretto da Sidney Lumet, è stato il primo a mettere in risalto l’idea di dare il beneficio del dubbio ad un sospettato. La pellicola è interamente ambientata dentro una stanza, dove dei giurati devono decidere se giudicare colpevole o innocente un giovane accusato di aver ucciso il padre e, se dichiarato colpevole, finirà sulla sedia elettrica. Sebbene all’inizio siano quasi tutti convinti della sua colpevolezza, le loro discussioni li portano gradualmente a mettere in discussione le proprie certezze. Per questo film, Farinotti ha definito Lumet “il primo testimone garantista del cinema”.

Anche nel cinema italiano non mancano opere che raccontano processi contro qualcuno che potrebbe essere innocente: va ricordata in tal senso la pellicola di Dino Risi “In nome del popolo italiano”, del 1971. Qui, Ugo Tognazzi veste i panni di un magistrato che cerca di mandare in prigione un imprenditore corrotto e disonesto (interpretato da Vittorio Gassman), accusato dell’omicidio di una ragazza. Andando avanti nel corso della storia, ci si rende conto che a prescindere dalle prove il giudice vuole condannare l’accusato non tanto per il delitto in sé, quanto per tutto ciò che di sbagliato egli rappresenta ai suoi occhi.

Passando agli anni ’90 e al dramma carcerario, non si possono non citare “Le ali della libertà” (1994) e “Il miglio verde” (1999): diretti da Frank Darabont e tratti da opere letterarie di Stephen King, entrambi i film raccontano le storie di due uomini che finiscono in prigione, condannati il primo all’ergastolo e il secondo alla pena di morte, per omicidi che non hanno commesso.
Arrivando, in anni più recenti, a pellicole né americane né italiane, un caso emblematico è “Il sospetto”, film danese del regista Thomas Vinterberg: uscito nel 2012, racconta di un maestro d’asilo che viene accusato ingiustamente di pedofilia dai discorsi di una sua alunna. Sebbene dopo un primo arresto viene rilasciato per mancanza di prove, nel piccolo paese dove abita viene isolato e ostracizzato dall’intera comunità, compresi i suoi vecchi amici, che gli rendono la vita impossibile.

Per quanto riguarda il dramma carcerario e l’ingiustizia insita nella pena di morte, un film degno di nota è il sudcoreano “Miracle in Cell No. 7”, del 2013. Qui, un uomo mentalmente disabile con la mente di un bambino viene incastrato per lo stupro e l’omicidio una bambina, e sua figlia fa di tutto per dimostrare la sua innocenza. Questa pellicola, della quale nel 2019 è stato fatto un remake di produzione turca, presenta alcune analogie con “Il miglio verde”, pur senza gli elementi soprannaturali presenti nel film americano.

In conclusione, il cinema ha saputo nel corso dei decenni trattare in tanti modi diversi il tema del garantismo. Ha dimostrato che voler giudicare un sospettato prima di condannarlo non è, come qualcuno vorrebbe far pensare, un mezzo per lasciare impunito chi commette un crimine, ma un’acquisizione sociale preziosa per la civiltà. Perché chiunque di noi, quando meno se lo aspetta, può ritrovarsi dall’altra parte del muro senza capire il perché.