Leggi, sentenze e immigrazione. La condanna di Lucano ha pochi innocenti
Diritto e libertà
La sentenza contro l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano non è più abnorme nelle dimensioni – tredici anni e due mesi di galera – che nelle motivazioni. Non in quelle scritte che, come usa dire nella buona società, vanno lette e solo dopo commentate – in particolare quando non piacciono – ma in quelle che le sono presupposte e che non riguardano la condotta di Lucano, né la decisione dei giudici, ma le leggi che Lucano avrebbe violato e di cui si sarebbe accertata e punita la violazione da parte del Tribunale di Locri.
Malgrado gli scontri di Lucano con Salvini, le leggi che avrebbero inchiodato l’ex sindaco non sono di Salvini (l’inchiesta parte nel 2017), ma di tutte le maggioranze che si sono succedute in questi decenni (ben prima che Salvini sbarcasse al Viminale) e che hanno reso la materia dell’immigrazione, del diritto d’asilo e dell'accoglienza un guazzabuglio di cretineria burocratica, cattivismo autolesionistico e stolidità criminogena. D'altra parte anche in sede politico-amministrativa, non solo giudiziaria, Lucano finisce nel mirino nel 2017, quando il ministero dell'Interno, guidato da Minniti, esclude Riace dai finanziamenti del sistema dell'accoglienza per una serie di irregolarità e per il mancato rispetto degli standard previsti dalla legge.
Se davvero Lucano ha violato le leggi – e su questo leggeremo le motivazioni, con poco divertimento – vuol dire che le leggi non avrebbero consentito a Riace di diventare quel modello di certo ingigantito nell’esemplarità (e nella possibile esportabilità), ma di buona fama, di rispettabile concetto e di non disprezzabile risultato, in una regione e in una provincia in cui le associazioni per delinquere (di cui a quanto pare Lucano era un mammasantissima) normalmente non si occupano di fare quel che a Riace ci si era ingegnati di fare e la legalità amministrativa affronta sfide di tenore decisamente più criminale, in senso economico e perfino terroristico, di quella di una comune fricchettona e multiculti, organizzata e incasinata da un sindaco pauperista.
Non che l'accusa contro Lucano non si sia già scontrata con significative smentite, anche in Cassazione. Ma anche dando per assodato ciò che assodato non è, che Lucano cioè sia un "criminale", la questione rimane aperta, anzi ancora più aperta.
Nella sostanza Lucano deve andare al quasi ergastolo per essersi inventato e avere sperimentato alla luce del sole un sistema di accoglienza capace di sopravvivere (e di fare sopravvivere, molto meglio che altrove, gli “accolti”) malgrado i ritardi dei pagamenti da parte del Viminale e le norme tagliola nascoste in ogni legge e di trasformare un comune più morto che vivo, in un comune più vivo che morto. Non c’è violenza e sopraffazione, intimidazione e minaccia, non c’è guadagno illecito, non c’è interesse privato. Non c’è nulla che, in teoria, possa giustificare 13 anni di galera, anche se i giudici nelle loro motivazioni dimostreranno che in pratica invece c’è e sta tutto scritto nella/nelle legge/leggi. E temiamo pure che possano avere qualche ragione.
Quindi chi oggi grida allo scandalo della sentenza, dovrebbe forse riflettere sullo scandalo delle leggi che possono averla originata e perfino (non escludiamo) giustificata. E le campagne sull’innocenza di Lucano – che fanno fine e non impegnano – andrebbero associate a una più complessa e impegnativa iniziativa per la revisione delle leggi, che rendono le esperienze come quelle di Riace se non criminali, comunque impossibili.
Lo diciamo senza nessuna particolare simpatia politica per l’ex sindaco di Riace, che ha trovato il modo di farsi condannare da candidato capolista di una lista a sostegno del Torquemada De Magistris alle regionali calabresi, rendendo così ancora più grottesca l’intera vicenda e inattendibile il garantismo dei suoi sostenitori. La sua condanna “esemplare” porterà voti a chi della giustizia “esemplare” calabrese è stato il fenomeno peggiore, più popolare e appunto più “esemplare”.
Lo diciamo anche con la consapevolezza che quel modello di cooperazione solidaristica e di integrazione comunitaria organizzato, per così dire, "in famiglia" da Lucano offre molti spunti su cui riflettere, ma non ha una immediata e generalizzata replicabilità. In ogni caso, se il “modello Riace” è stata una associazione a delinquere, perché lo dicono le leggi, allora il problema sono le leggi e la vicenda dimostrerebbe che la condanna di Lucano ha ben pochi innocenti, anche tra coloro che si stracciano le vesti per la decisione del Tribunale di Locri.