metoo big

 

Se le coincidenze sono le cose più sicure, come sosteneva qualcuno, o se comunque, come sostengono altri, gli eventi del mondo sono intessuti di simboli da interpretare (e non sappiamo se una delle due affermazioni sia vera), il 7 dicembre del 2019 a piazza Cavour, a Roma vi è stata una coincidenza molto eloquente e significativa.

Nello stesso luogo si sono tenute due manifestazioni, per poco non contemporaneamente: la maratona oratoria delle Camere Penali contro l’abolizione della prescrizione e, in seguito, un flash mob femminista “Un violador en tu camino”. Entrambe nella piazza davanti al “Palazzaccio”, entrambe rivolte, in qualche modo, alla “Giustizia”. Una coincidenza, forse, che ci invita ad una riflessione su una delle questioni che al momento stanno crucciando il mondo occidentale: quella del “MeToo”, in due parole, ovvero quella del rapporto tra garanzie processuali e reati di offesa sessuale (quella della via penale alla lotta al maschilismo e al patriarcato, se si vuole essere più espliciti e polemici).

In un’atmosfera spettralmente emblematica, alla raccolta manifestazione degli avvocati, che con estrema fatica nel mondo “assolutista” di oggi cercavano di far valere la ragione della presunzione di innocenza, del dubbio, della prescrizione, dei diritti del “mostro”, seguiva il flash mob femminista: flash mob che, all’evidenza, aveva rivendicazioni importanti e giuste, ma che proprio alla Cassazione, al “Palazzaccio”, ai “giudici” aveva deciso di rivolgersi. Nella canzone, negli slogan, che avevano dapprima caratterizzato alcune delle proteste in Cile e che, poi, erano stati “esportati” in tutto il mondo e anche in Italia, si parla dell’“impunità dell’assassino” quale punizione patriarcale per le donne, e si elencano anche “i giudici” tra i “violador” o, comunque, tra i complici dell’oppressione femminile e del patriarcato.

Sebbene sia passato più di un anno da quella giornata del dicembre 2019, la questione esposta dalla coincidenza illustrata rimane sempre più attuale, delicata e polarizzante. Ormai è notizia ricorrente, ammantata da media indignati e gnaulanti, lo “sconto” di pena a qualche uxoricida (o colpevole di altri simili reati), accordato da un giudice sessista, con giustificazioni ritenute maschiliste e consentite da un sistema patriarcale. Le polemiche, le accuse dei giornali e dei media, riecheggiano gli slogan di cui sopra (contro i giudici che, braccio del sistema patriarcale, puniscono “troppo poco”) e sono completamente sorde alle ragioni dei difensori.

Se una piega preoccupante del “MeToo” è forse riscontrabile in tutto l’Occidente, in Italia questa tendenza apparentemente “progressista” insiste (accasandosi) su un consolidato humus giustizialista. Dunque, in Italia, i reati a sfondo “sessuale” non sono solamente questione di “MeToo”, ma sono soprattutto oggetto della morbosa attenzione dei media guardoni, di uno scandagliamento ossessivo da parte di un’opinione pubblica impotente e repressa.
Si potrebbe considerare come significativo esempio un caso abbastanza recente, quello di Alberto Genovese, il cui dibattimento, sostanzialmente, è andato in anteprima in televisione sotto il bisturi giustizialista di Giletti e gli sguardi importuni di milioni di spettatori. Come ha fatto notare Luca Andrea Brezigar dell’Osservatorio media delle Camere Penali, in una sua intervista sul Dubbio, lo spettacolo che è andato in onda su Genovese è una circostanza gravissima ed è un modo per affossare il processo e per inficiare l’imparzialità dei giudici.

Tuttavia, Il fatto più emblematico del cabaret che Giletti per diverse settimane ha fatto sul caso Genovese è che esso è una trasposizione speculare (nel senso di rovesciata) di ciò che dovrebbe essere un “normale” processo: le uniche argomentazioni, le uniche “prove” riportate (da ambo le parti) sono di tipo moralistico e morale. Durante il dibattimento dell’inquisizione televisiva, infatti, la principale occupazione di Giletti è stata dissecare la vita e la personalità di Genovese (un drogato, uno sfrenato) per dimostrarne quasi lombrosianamente la colpevolezza. Anche se un tale “sezionamento” moralista - non con i picchi che permette il terreno fertilissimo italiano - è, a volte, stato adoprato anche nei confronti di accusati dal MeToo (Allen, su tutti), esso non è certo “femminista” (se vogliamo giocare a “nessun vero femminista…”).

E se l’“accusa”, nel salotto di Giletti, si premurava di scrutare a fondo la personalità disturbata e perversa di Genovese, la “difesa” di quel processo ossimorico si dilettava in radiografie ugualmente moraliste: sia Giletti che Senaldi (altro ospite) hanno ritenuto opportuno (signora mia) fare la “ramanzina” alle ragazze che accusano Genovese per essere andate ai festini “con la droga”. Anzi, l’insinuazione della “difesa” sembrava proprio essere che la “dissolutezza” delle ragazze scagionasse Genovese o, comunque, ne indicasse con sicurezza la non colpevolezza.

Anche allontanandoci dall’Italia e da Giletti, tuttavia, sembra che vi sia, di nuovo, la tendenza, più che a concentrarsi sui fatti o sui presunti reati commessi, a dilettarsi nel descrivere la mostruosità dell’accusato: in questa prospettiva, vi sono analisi dei film di Allen volte a dimostrare la perversa ossessione per ragazze adolescenti sino alla pedofilia del regista (e tanto dovrebbe provare definitivamente la veridicità delle accuse rivoltegli). Si prendono in considerazione più che prove e fatti, l’indole e l’essenza dell’incolpato.

È inevitabile, però, se la spinta di un movimento è soprattutto moralista, che esso ad argomenti moralisti debba rispondere. Le molestie e le violenze sessuali sono gravi reati contro l’individuo, contro la sua libertà: non offese contro la moralità, non espressione di un’indole depravata; e in quanto reati hanno, in uno stato liberale, una connotazione oggettiva, che deve essere analizzata in un luogo idoneo, con prove e argomentazioni atte perché l’accusato possa essere realmente “accountable” per ciò che ha - se dimostrato - commesso e perché ugualmente sia possibile la sua difesa. Stupro e molestie sono reati, non perché siano “peccati”, ma perché gravi lesioni del corpo, della libertà e della vita di una persona: tanto è stato riconosciuto all’esito di una battaglia “laica” per i diritti civili, per l’individuo contro una concezione morale, puritana e maschilista, del diritto. A questo proposito si potrebbe evidenziare come, ad esempio, negli Stati Uniti lo stupro coniugale è diventato reato per la prima volta (in South Dakota) nel 1975 - gran parte dei Paesi occidentali sono arrivati dopo - e come, dunque, sia chiaro che la considerazione di tale reato fosse legata non alla “materialità” dell’atto, ma sottoposta a considerazioni morali su di esso.

Ora, sebbene le rivendicazioni del MeToo siano sacrosante, e sebbene sia parimenti innegabile che appare necessario combattere molestie e discriminazioni nei confronti delle donne attraverso un cambiamento (rispetto ai ruoli di genere) nella società, dalla piega che sta prendendo la narrativa del movimento (anche con gogne pubbliche e la legittimazione della delazione) vi è il rischio che il MeToo si trasformi in una lotta per la sostituzione di una morale patriarcale con una nuova morale femminista e per l’imposizione di tale morale attraverso lo Stato e anche nei tribunali. La sentenza arriva, prima che in un tribunale, sui media e sui social, e non “rientra” nel quadro “normale” di ciò che in uno Stato di diritto andrebbe considerato: pare, anzi, che venga richiesto che essa debba aprioristicamente esulare da tale “quadro normale” con una proposta di presunzione di colpevolezza ed una diuturnità della pena (e della gogna). Ma, soprattutto, la sentenza mediatica (che forse si vorrebbe far penetrare nei tribunali) guarda alla moralità, guarda al costume: decreta semplicemente che l’accusato “è un depravato” (o un mostro o un pedofilo); e, dunque, a tale lapidaria conclusione la risposta conseguente del patriarcato “rinvigorito” – che vediamo sempre più riprovevolmente in televisione, sui giornali (italiani) e sui social – è: “sei tu puttana”.

Tuttavia, "giacché, quando s'è per la strada della passione, è naturale che i più ciechi guidino", è pericoloso riportare il discorso dei reati di violenza sessuale e, più in generale, dei reati contro le donne, in una sfera “moralista”, lontano dalle certezze e dalle garanzie dello Stato di Diritto.
In un celebre “processo per stupro” l’avvocato Tina Lagostena Bassi - ribattendo alle controparti che si spingevano nel morboso giudizio morale sulla condotta della ragazza che rappresentava - ribadiva laicamente di non volere parlare della sua assistita, perché “secondo me è umiliare venire qui a dire «non è una puttana». Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza”. Da affrontare e accertare era esclusivamente la “fattualità” dell’avvenimento, e non un giudizio morale su quanti ne erano coinvolti.

Componente fondamentale del femminismo e della storia della filosofia femminista è stato l’individualismo ed anche il liberalismo. Il racconto secondo cui i tribunali sarebbero luoghi di oppressione patriarcale, quando non si riesce ad arrivare a una “giusta” condanna, non fa altro che escludere idealmente le donne dagli individui che vengono protetti grazie alle garanzie processuali dall’arbitrio dello Stato. Se Mill in “The Subjection of Women” si rivolgeva ai suoi lettori uomini per chiedere loro perché mai volessero privare le donne delle libertà che tanto reclamavano e preservavano per sé, è chiaro che la lotta per l’autodeterminazione delle donne è stata soprattutto lotta liberale: per l’affermazione della donna quale individuo e come facente parte anch’ essa, a pieno titolo, del genere umano.

È stata, si può affermare, lotta contro la “morale”, contro il moralismo e per il diritto, per il “laico” affermarsi di diritti e libertà mediante la legge, a prescindere da giudizi morali a cui tali libertà e diritti potrebbero essere sottoposti (lotta di corpi contro “anime belle”): difatti, grande conquista anti-morale femminista in Italia è stato anche considerare lo stupro quale reato contro la libertà sessuale e non più contro la morale pubblica.

Tuttavia, se si cede a una narrazione che vuole le garanzie individuali come ostacolo all’affermazione delle donne, che si preoccupa di illustrare quanto sia empio, peccatore e “depravato” colui che commette violenza contro le donne (e non quanto in sé sia sbagliato il reato che ha commesso in quanto prevaricazione di una libertà individuale, in quanto violazione di un corpo altrui) si rischia di riportare in mano al “nemico” un vantaggio: quello di rendere la causa femminista una causa di “morale”. E, dunque, di distorcere e deformare il dibattito in merito: si passa da un piano in cui l’affermazione dei diritti delle donne viene promossa laicamente all’interno del sistema “naturale” dello Stato liberale a un piano che vuole una zuffa fra “morali” diverse, entrambe in cerca di degeneri da lapidare.

Uno Stato che promuova “troppo” valori morali, anche tramite il diritto penale ,è da sempre il migliore alleato del “patriarcato”. Se si vuole che uno Stato “moralizzatore” entri sempre di più nella società per aiutare le donne (generalmente con reati nuovi, come anche proposto recentemente dal ministro Orlando), o se si vogliono assottigliare le garanzie dell’individuo in un processo, bisognerebbe ricordare che i diritti delle donne hanno sofferto anche (e forse soprattutto) per uno Stato troppo invasivo (che proibiva, limitava le loro libertà e le loro possibilità, che ancora le “costringe” a congedo di maternità molto lungo, mentre alle controparti maschili “concede” pochi giorni, alterando così anche gli equilibri lavorativi).

Dunque, se si volesse rispondere a tono a coloro che, sostenitori del MeToo, o anche “normali” giustizialisti, vedono in sentenze troppo lievi, in assoluzioni di accusati di reati contro le donne, il manifestarsi del sistema patriarcale dello Stato liberale, bisognerebbe evidenziare che nella “moralizzazione” che si opera, nella richiesta del venir meno di alcune garanzie individuali, nella gogna contro i degenerati, si nasconde, proprio qui, in realtà, una insidiosa trappola “patriarcale” che vuole trascinare la questione dei diritti delle donne da un piano “laico”, individualista e liberale a un piano morale ed etico.
Recentemente è stato riportato dal Dubbio come due avvocatesse abbiano subito minacce e insulti (in quanto donne) per aver difeso e fatto assolvere un uomo accusato di violenza sessuali: questo evento è significativo ed esemplificativo di quanto sin qui argomentato.

In conclusione e tornando alla singolare coincidenza, spunto iniziale della nostra riflessione, si potrebbe sostenere che l’errore del flash mob femminista rivolto alla Cassazione, ai giudici, contro “l’impunità dell’assassino” era proprio quello di essere (forse inconsapevolmente) opposto alle ragioni della manifestazione degli avvocati, perché, come dimostra l’episodio raccontato dal Dubbio, solo e soprattutto all’interno di uno Stato di Diritto, di uno Stato liberale la causa dei diritti delle donne può essere affermata integralmente.