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Il dibattimento processuale, nel contraddittorio tra le parti, nella formazione delle prove nel contesto di garanzie precise, è complessità e, come tale, è sempre aperto a contraddizioni e aporie. Nella modernità, le cui categorie fondamentali sono la contingenza e l’assenza di un fondamento assoluto, questa complessità è un valore più che un destino da compatire.

Lo scopo del processo penale liberale - democratico, costituzionale - non è l'accertamento della verità/certezza, di una responsabilità monolitica che inchiodi, per sempre, l’individuo alle sue azioni/omissioni ma è la più articolata e multiforme verità processuale, frutto di un procedimento formale che coniughi indagini, garanzie, pluralità d’approcci e visioni, appunto. E meno male che sia così!

Nel primo caso avremmo a che fare, infatti, con l’astrattezza di una verità metafisica, con le conferme giudiziarie di un apriori ideologico, moralistico, ghettizzante, la cui “ricerca” – riconosciuta come doverosa e imprescindibile - condurrebbe, come ha condotto in passato, ad un processo extra ordinario per crimini - cosiddetti gravi – sottratti, quindi, all’inutile dibattimento, alle forme del giusto processo che, ovviamente, spariscono innanzi all’evidente colpevolezza del reo, del reietto, del già escluso socialmente. Forme esperite, dunque, come un impaccio sulla strada dell’affermazione di una Giustizia immediata, sommaria, intesa propriamente come vendetta e rappresaglia.

Il senso del processo penale in un paese civile, però, non è cedere alle pulsioni del momento, allo schianto del “fatto”, alla cristallizzazione dell’evento, all’ istinto di ritorsione ingenerato dal sangue innocente dell’Abele che giace contro il Caino omicida che fugge, innanzitutto, da se stesso. Con ciò concorrendo – con la violenza propria di ogni sostanzialismo grossolano - alla mostrificazione, alla sottrazione di umanità e diritti.

A che serve, infatti, sacrificare definitivamente anche il reo sull'altare del crimine commesso? Che bene ne avrebbe la Società plurale e multiforme dalla sanzione senza appello che colpisce l’irredimibile, colui a cui non è concesso neppure il diritto di mutare, di risorgere dalla tragedia della colpa?

Più prosaicamente, infatti, il processo moderno è una forma dell'articolazione sovrana nel monopolio della forza.
È una risposta “decisa” di sicurezza e ordine sociale che si realizza – nella fictio iuris – attraverso l'accertamento di una equiparazione (im)possibile tra verità reale e verità legale, attraverso il principio di contraddittorio nella formazione della prova e l’applicazione di una pena che – aperta al ruolo del tempo e alla maturazione nell’ elaborazione di una coscienza duttile - tende di principio alla riabilitazione sociale del criminale.

In tal senso, l'auto affermazione di una legittimità debole propria della Modernità Occidentale - attraverso il prisma della Libertà dei singoli di fronte all’Autorità costituita - non sconfessa - come pure appare ad un'analisi frettolosa - il ruolo della Tradizione, della Colpa, della Responsabilità etica ma le “purifica”, sottraendone l’aculeo dell’arbitrio spacciato per Verità da imporre.

Le persone buone, infatti, esistono anche oggi e ciò che esiste è sempre possibile, ci ha insegnato Agnes Heller !
L'impegno responsabile, la “stampella” sempre necessaria dei principi e dei valori universali, sono perfettamente operativi nelle coscienze di chi, ancora adesso e per fortuna, si interroga sull’ influsso delle proprie e delle altrui azioni o omissioni sul prossimo, sugli innocenti sugli esclusi.

Ciò che è venuto meno, ovviamente, è il portato di certezza ontologica, la “sostanza escludente” di certezze vissute – e operate - come inattaccabili e solidissime, l’impulso “auto -assolvente” per una giustizia schematica che non riconosce valore al dubbio, alla complessità dell’evento.

L’origine della persona buona è divenuta, quindi, trascendente, non garantita da alcun culto o rito e il semplicismo manicheo – la rigida separazione tra giusti e reietti – è intuito dai moderni, o almeno dovrebbe esserlo, come un feticcio ideologico che, comunque, si attiva con ferocia – questa è la storia universale delle carceri – quasi sempre nei confronti degli estromessi, di chi vie ai margini, dei poveri di spirito.

Ecco perché, nel processo penale, la certezza e la verità non sono “macigni” che si impongono contro le resistenze artificiose delle garanzie al reo ma sono il risultato operativo di un procedimento articolato, condiviso, plurale, tragico, mai davvero esatto e compiuto, che emerge dalle spoglie di Abele – dalla forza necessaria per acclarare per quanto possibile la responsabilità individuale – ma che emerge anche dai passi, dagli inciampi, dagli errori, dallo spirito e dalla carne viva di Caino che fugge dalla propria umanità e fratellanza ma che (è sempre possibile) può farvi ritorno.
Caino sul quale, in ogni caso, precipita l'editto preciso di Dio: “Nessuno lo tocchi !”

La Giustizia, infatti, non è davvero di questo mondo: la condanna immutabile, ostativa, senza speranze, non è appannaggio dell'uomo e delle sue incertezze e debolezze; può essere solo l’illecita appropriazione delle tante scimmie di Dio, dell’ansia sostitutiva di un Potere “giusto” scevro da limiti.

Ecco perché, a mio parere, l'avvocato che qualche giorno addietro ha respinto la nomina, quale legale di fiducia, di un femminicida, dichiarando: “io sto da tutt'altra parte”, non ha fatto un buon servizio al suo ruolo, alla giustizia democratica.
Che senso ha, infatti, rivendicare una tale distanza antropologica? Affermare l’abisso che separa vittima e carnefice ponendosi, ovviamente, al sicuro, sulla sponda giusta, affermando una impropria alterità?
Questa reazione, ovviamente popolare, contraddice lo spirito del Presente, lo sviluppo sano della nostra civiltà giuridica.

Fatto salvo il diritto di ogni avvocato, infatti, di non accettare un incarico, non è però corretto – pubblicizzandone sulla stampa le motivazioni “morali” - anticipare la condanna, depotenziare il processo, contribuire a renderlo inutile nel dibattito pubblico, consegnare il “colpevole” alla mercé scandalizzata dei suoi ormai “ex simili” (non più pari) come sempre pronti - nella Maggioranza - a gridare in coro: è indifendibile!

E quanto sarebbe stato bello invece (e parlo propriamente della “bellezza della persona buona”) se proprio un’avvocatessa esperta, impegnata nella tutela delle vittime di violenze e abusi; se proprio un giurista degli ultimi, degli esclusi, degli stigmatizzati, avesse onorato l'indispensabile compito della difesa tecnica anche del “Nemico”. Ne avrebbe goduto il Processo, l'esito di un dibattimento garantito, una condanna “giusta”, il riconoscimento salutare e sincero che è sottilissimo e fragile il crinale che separa il povero diavolo dal povero Cristo.