Wilhelm Röpke: il Vangelo è socialista?
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Il Vangelo è socialista? Rileggendo Wilhelm Röpke a 60 anni dalla morte e dalle battaglie di una vita intera spesa contro il collettivismo, a partire non tanto da considerazioni economicistiche ed utilitariste ma da un approccio schiettamente etico ed umanitario, l’attualità di questa domanda – nel tempo di un rinnovato collettivismo non più ideologico e scientifico ma demagogico e populista - si appalesa, a mio parere, come decisiva. E per questo la risposta, da posizioni cristiane e liberali, non può che essere – in maniera “ortodossa” potremmo dire parafrasando Chesterton – no!
Purtroppo, di contro, le tante buone speranze e l’impegno concreto di molti cristiani, ancora oggi, sono politicamente mossi da un giacobinismo pseudo-pauperistico e da una visione “necessaria” e “giusta” del corso storico (definibile come “gnostica” seguendo Voegelin) che, a ben vedere - nell’epoca della statizzazione del terrore islamista ma anche del revanscismo cesaropapista di Putin e del neo-sultanato di Erdogan – struttura, nel mondo, l’affronto più grave contro la libertà, la società aperta, il culto della persona e del suo valore.
Röpke, nei suoi scritti fino al 1965, si oppose, tra i pochi, (in Italia questa eccezione è degnamente rappresentata da Einaudi e Leoni) a quel fatalismo storico-filosofico che pretende di aver scrutato le carte del destino e di possedere le mappe dell’itinerario storico corretto.
Ed oggi, la fede cristiana è libera dal rischio della statizzazione dell’individuo? Dalla paradossale incomprensione delle regole spontanee e sussidiarie dell’economia di mercato? Dall’esame delle frequenti prese di posizione ecclesiastiche contro il capitalismo ed il c.d. neoliberismo (quasi un mantra irrazionale) sembrerebbe proprio di no. Una incomprensione paradossale ed antistorica che non tiene conto del fatto che proprio l’affermazione della globalizzazione e del libero scambio ha consentito, negli ultimi 30 anni, la più formidabile uscita di massa dallo stato di povertà mai avvenuta nella Storia; il caso cinese o quello delle tigri asiatiche costituisce solo l’esempio più paradigmatico.
Ancora, la vulgata della critica “evangelica” alla società dei consumi è davvero imputabile ai fondamenti sociologici e filosofici della società aperta basata sulla libera circolazione delle merci e delle persone? I frutti marci della società dei consumi illimitati, della domanda insaziabile non sono i frutti propri del mercato, della concorrenza, di quello che molti definiscono – utilizzando un’espressione impropria e caratterizzata ideologicamente - capitalismo.
Il mercato, la società della libera circolazione, non si fonda, infatti, sul consumo facile, ma sul risparmio; la sua sede naturale è il libretto di deposito (paradigma del consumo rinviato e, per ciò, valorizzato) e non il portafoglio bucato. E mentre il “conservatore” Hayek invitava cittadini e statisti ad avere una visione di lungo periodo nella gestione delle risorse (una visione anche e soprattutto morale), e mentre il “cristiano” Röpke fondava la propria difesa del mercato sul valore spirituale della persona, i “progressisti” keynesiani rinnegavano, come allegre cicale, il problema del lungo periodo (perché' nel lungo periodo si è tutti morti).
E ancora oggi gli ammirati intellettuali ed economisti alla moda spingono per lo sbilanciamento come risposta alla crisi (che è innanzitutto spirituale), per l’amministrazione “facile” dei soldi pubblici, magari ancora nel nostro Sud dove il problema non è quello delle scarse risorse statali e parastatali, non è che ci siano pochi enti pubblici (inutili) o pochi dipendenti nelle “partecipate” (raccomandati), ma è, al contrario, difficoltà di gestione efficace, mancanza di meritocrazia, assenza di servizi idonei, oblio della cultura del lavoro, sostituita dalla droga assistenzialistica, cui si aggiunge, ora, la facile quanto irresponsabile retorica del c.d. reddito di Stato per gli inoccupati. Allora, mi verrebbe da dire, abbiamo voluto la società dei consumi, dello spreco, dello sperpero immorale e del vuoto nichilistico ... ed ora ne paghiamo lo scotto! Ma il mercato ed il capitale di rischio e di impresa lasciamoli in pace, questo attiene più all’austerità dei conti che allo sbrago dei desideri.
Contro “valori statolatrici” come la scientificità e la pianificazione “diretta dall’alto” da illuminati e “santi” prestati alla politica ed alla economia, Röpke – in maniera scettica e, quindi, autenticamente cristiana nel senso della critica alle costruzioni palingenetiche a parte hominis - rappresenta la convinzione (comune anche a Buchanan e Von Mises) che l’individuo è propriamente quell’homo agens che resiste ad ogni generalizzazione astratta e a quei fabbricanti di diagrammi e curve che vogliono annullarne le specificità singolari all’interno di costruzioni intellettuali ed aggregati numerici.
Esiste, infatti, nel profondo del pensiero cristiano un dualismo scettico che da un punto di vista economico non può che giungere ad una metodologia che distingue tra scienze naturali e scienze umane e che punta a smontare le illusioni scientiste dei pianificatori dimentichi della concreta e contingente realtà sociale complessa. Il soggettivismo cattolico e liberale mostra l’impossibilità di ridurre la complessità innaturale umana ad un modello massimizzatore di soddisfazioni e bisogni catalogati rigidamente.
L’homo oeconomicus, dunque, questo modello sotteso alla macroeconomia moderna, è fortemente connesso all’imporsi dirigista di sistemi welfaristici che necessitano dell’individuazione laboratoriale, scientifica appunto, di precisi beni pubblici e bisogni globali per la cui produzione e soddisfazione di massa sarebbe moralmente legittimo anche il ricorso alla coercizione statale e, dunque, alla concussione dei diritti individuali.
Tutto ciò cozza, evidentemente, con la concreta varietà delle preferenze e dei bisogni del Singolo, contro quell’eccezione kierkegaardiana che è più interessante del “generale” e che, paradossalmente, lo spiega.
In tal senso, un programma autenticamente cristiano di economia umana è ben espresso dal titolo più famoso dello studioso naturalizzato svizzero Röpke: da quella civitas humana la cui complessità irriducibile ad unum e ingovernabile burocraticamente esprime la fonte di una ispirazione preoccupata dal fatto che l’economia in quanto tale non venga disgiunta – magari attraverso la retorica utilitarista della società del benessere o quella demagogica della spesa pubblica e dell’indebitamento – dalla filosofia morale, dalla puntualizzazione squisitamente storicista della centralità del cristianesimo della storia d’Occidente.