Omicidio stradale manifest

Una certa interpretazione farlocca del liberalismo lo vorrebbe anarchico, arbitrario, nemico giurato del giuridico e dell’unità politica di una comunità. Una certa interpretazione post moderna dei limiti dello Stato contemporaneo lo vorrebbe superato, inutile, dannoso e, soprattutto, inefficace a fronte di una esigenza di giustizia impellente e vissuta come vendetta legittima per un torto irrimediabile.

Queste interpretazioni hanno in comune una aperta idiosincrasia verso le forme del diritto, le regole di un vivere civile di matrice occidentale che sublima lo scontro, la lotta l’uno contro l’altro armati, la prevaricazione, la sempre possibile faida nell'applicazione neutra di regole – generali ed astratte – che hanno il compito non di vendicare, appunto, ma di applicare una giustizia terrena per sua natura imperfetta, di proteggere la collettività dai soggetti pericolosi, di prevenire, attraverso la certezza della pena, comportamenti rischiosi e dannosi.

Tali forme imperfette, che possiamo ben definire Stato di Diritto, sono il frutto migliore dell’epoca moderna, l’eredità viva di un’Europa che, per terminare le guerre di religione intestine, lo scatenarsi arbitrario di poteri indiretti fondati sul principio della giustizia e bontà delle proprie ragioni vendicative, seppe strutturarsi progressivamente in stati-nazione fondati, tra l’altro, sul monopolio della forza.

E se il post moderno non fosse altro – in senso vichiano – che il ricorso storico di un nuovo pre-moderno atomizzato? Il presentarsi di un esercizio diffuso di una forza “privata” - concepita come giusta, necessaria, vendicativa - che pretende legittimazione e consenso popolare?

E così, ad esempio, il lascito longobardo del diritto di faida, dopo essersi storicamente incardinato nelle dinamiche della criminalità organizzata del nostro Sud (propriamente considerata Anti-Stato) sembra coinvolgere sempre più larghi strati della società civile (non solo italiana, occorre precisarlo) alle prese con una crisi non solo economica che appare infinita e con un contesto politico, culturale e spirituale nuovamente disposto a credere alle semplificazioni manichee, ai mille complottismi, al necessario annientamento del criminale trasformato in nemico pubblico sacrificato sull'altare della gogna mediatica, rinnovato autodafè.

Ed ecco che, per un verso, Trump decreta il sorgere di salvifici muri difensivi come meraviglia dell’epoca post-truth, ed ecco che, per un altro, la responsabilità penale trasmigra (ancora una volta, tragica infondatezza del principio historia magistra vitae) dalla persona alla nazione, dal singolo al popolo.

Ma anche - e dobbiamo avere il coraggio di riconoscerlo sempre più in Italia - ecco che i tribunali mediatici e “social”, con la complicità di qualche teologo (o inquisitore) reinvestitosi del ruolo di infiamma-popolo, decretano che tempi e forme della giustizia statale non vanno bene, che le pene sono ancora troppo basse e le carceri troppo poche, che i difensori sono azzeccagarbugli e, come tali, peggio dei criminali, che i processi si possono ben fare a distanza, che, in fondo, “ha fatto bene ad ammazzarlo come un cane, ha fatto bene - era suo diritto - a vendicare la moglie morta in un incidente stradale, ha fatto bene a sparare tre colpi in pancia ad un ragazzino ancora a piede libero, e la chiave della cella l’avrebbero già dovuta buttare via all'indomani dello scontro dei veicoli”.

Ma la libertà, quando si sostanzializza al punto da divenire arbitrio, rappresaglia, potere irrefrenabile e “divino”, quando non conosce mitigazione, patto sociale, umanità, compromesso e civiltà, è davvero libera? La Società, quando si destruttura al punto da autoassolversi - come “singoli” - dai limiti e dai possibili errori e pecche delle proprie istituzioni, quando legittima il potere “altro”, definitivo, inappellabile e privo di “burocrazia” della vendetta privata (dell’occhio per occhio “religioso”) è davvero nel giusto? Reagisce davvero ad un sopruso?

L’alba della modernità sorge con un “Silete!” gridato in faccia da un giurista (Alberico Gentili) ai “giusti teologi”, ai sacerdoti della Verità da imporre a tutti senza fronzoli, senza mediazioni, poi trova una prima declinazione nel Leviatano di Hobbes chiamato a promulgare “leggi civili”, a strutturare un diritto forte laddove lo stato di natura era quello dell’homo homini lupus, infine si perfeziona grazie a Napoleone con l’unità del soggetto giuridico (tutti uguali di fronte alla legge e tutti ad essa soggetti) e con la chiarezza e neutralità delle norme di un Codice generale ed astratto.

È ovvio, alle vittime, ai familiari – per altri versi, ai vendicatori via chat alle prese con le proprie turbe - ciò non può bastare, il Codice non può bastare... e non basterà mai, perché l’assenza improvvisa, l’ingiustizia di un torto inatteso e gratuito ci portano nella sfera dirompente di una disfatta tremenda e mirabile che non può che appellarsi, nel dolore atroce, ad una giustizia tremenda e mirabile, ad una vendetta che sazi nel sangue il torto del terrore teologico-politico ma anche il torto di un incidente mortale provocato per colpa, per disattenzione, per idiozia.

Ma anche a questo serve uno Stato liberale, ad impedire lo scatenarsi (in)civile e comprensibilissimo di questo dolore, ad imbrigliare costituzionalmente il movimento di popolo verso l’esclusione ed il ghetto del nemico, a spegnere il fuoco contagioso e nefasto di un sostanzialismo che non conosce ragioni e che, legittimato anche solo per debolezza e timore, porterebbe alla disintegrazione di ogni regola di convivenza, all'esercizio arbitrario delle proprie ragioni o presunte tali, fino all'annientamento totalitario.