crowd of faces big

 

Da oltre un anno avevo in mente di scrivere qualcosa sul ruolo politico che ha la nostra relazione con i tre assi del tempo (passato, presente e soprattutto futuro). Ora che mi sono deciso a portare a termine il compito come una necessità politicamente imprescindibile, anche in conseguenza della pandemia e dei suoi effetti, mi rendo conto che il tema è già stato indagato, con maggiore profondità e forse originalità, da storici, filosofi e sindacalisti. Questo non sarà quindi un contributo particolarmente innovativo o una riflessione profonda: vuole essere invece una riflessione personale, a uso soprattutto di attivisti politici, culturali e sociali di ogni tipo; in secondo luogo di chi vuole riflettere dei rapporti tra società e politica; e infine di quei politici che abbiano un po’ di tempo per pensare e degli strateghi che organizzano la loro comunicazione.

La domanda da cui parto è questa: i sentimenti che nutriamo verso il presente, il passato e il futuro sono in grado di influenzare il nostro voto? Credo di sì, molto più di quanto possiamo pensare a prima vista; e chi si occupa strumentalmente di comunicazione politica ed elettorale, come uno spin doctor, è in grado di sfruttare questo meccanismo come rinforzo agli altri mezzi a sua disposizione.
Mi pare evidente che nel mondo occidentale oggi prevalgano la nostalgia verso il passato, la paura verso il presente e la sfiducia verso il futuro: è vero soprattutto in alcuni Stati meno socialmente coesi, e l’Italia è tra questi. Facciamo attenzione a non giudicare, però; resistiamo alla tentazione di condannare o assolvere, e cerchiamo di capire meglio.

Nostalgia, paura e sfiducia sono sentimenti legittimi, soprattutto per chi li prova: chi ha paura di volare dovrebbe capire benissimo (e di solito ci riesce) che non c'è nessun motivo reale di avere paura, ma nonostante questo continua ad averne ogni volta che deve prendere un aereo. Chi ha nostalgia dei propri trascorsi giovanili, se si ferma a riflettere sa che c'è molto di vero in una famosa frase di Paul Nizan ("Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita"); eppure quando vedrà un giovane compiere i suoi stessi passi non potrà non sentire voglia di tornare indietro nel tempo. E vogliamo prendercela con chi vive sfiduciato, noi che spesso ci sentiamo "pessimisti della ragione"? No, mi pare che la sfiducia non abbia davvero bisogno di nessuna difesa d'ufficio.

Quanto cominciano allora i problemi? Possiamo dire che sia quando questi sentimenti diventano il centro di un discorso politico rivolto "alla pancia" degli elettori? "Parlare alla pancia dell'elettore" è un'espressione che suona insieme accusatoria verso gli altri e autoassolutoria verso le proprie difficoltà nel raccogliere consensi. È la versione, riveduta e aggiornata ai tempi dei social, di un vecchio discorso per cui chi vinceva "aveva le televisioni". Sono comode scorciatoie del ragionamento, che evitano analisi precise e proposte concrete: un po' come il classico "bisogna ripartire da..." seguito dal tema o dal personaggio del momento. In politica però le scorciatoie si pagano: qualsiasi passo risparmiato in un percorso tende a diventare un problema, prima o poi. Quindi resistiamo alla tentazione della scorciatoia e ragioniamo ancora con la massima lucidità possibile.

Vi chiedo: abbiamo in testa l'odierno elettore medio (italiano, ma non solo) affascinato da uomini forti, ricette semplici e interessato a votare giusto per migliorare la propria condizione? Bene, proiettiamolo indietro di dieci anni. Poi di venti, di trenta, di quaranta. Proiettiamolo all'indietro fino all'inizio del suffragio universale (anche se riservato solo ai maschi): sarà forse spiacevole dirlo ma, a parte rarissimi casi e momenti, nulla di significativo è cambiato al riguardo. La maggior parte degli elettori non ha mai votato con la testa, ragionando di programmi e disquisendo amabilmente con un proprio simile di come rendere il mondo un posto migliore: ha sempre votato per fedeltà a un simbolo, per interessi propri o di categoria, per fiducia nel carisma di un leader, o “con la pancia” (il voto di protesta non risale certo ai Vaffa-day). E non mentiamoci su un punto decisivo: i politici di ogni epoca questa cosa la sapevano benissimo, anzi l'hanno usata il più possibile per ottenere consenso elettorale. Perfino De Gasperi, che era De Gasperi, sfruttò le Madonne piangenti e le minacce di scomunica nel 1948 (altro che baciare il rosario, verrebbe da dire).

Tuttavia, se siamo onesti, bisogna riconoscere che qualcosa è cambiato davvero; ma cosa?

A mio parere la risposta è che è cambiato il sentimento collettivo verso le tre articolazioni del tempo. Era comunque la paura a muovere il voto, dopo la Seconda guerra mondiale: però era la paura del passato, un passato molto prossimo e ben visibile nelle macerie. Era invece la speranza, che è un po' il contrario della sfiducia, che dava forza ai cittadini nella ricostruzione, a far rimboccare loro le maniche, ad aiutare il loro impegno per rimettere in piedi un continente devastato. Questi sentimenti nelle democrazie occidentali si sono inceppati e sbloccati più volte: dopo la crisi degli anni Settanta del secolo scorso, con il terrorismo politico di varia matrice e lo shock petrolifero, c'è stato di nuovo un periodo d'oro negli anni Novanta, quando la caduta del Muro aveva aperto la possibilità di immaginare un futuro diverso. Poi è stato di nuovo il terrorismo (di origine confessionale, questa volta) a cambiare il clima, a far risorgere la paura e a proiettare questo sentimento verso il presente e sul "diverso", a farci rimpiangere un passato "pacifico" (che non era veramente tale, salvo che per un decennio e dimenticando se possibile le tragiche guerre dei Balcani e in Africa) e “prospero” (che era tale solo grazie alla miseria in cui vivevano interi continenti, che poi hanno cominciato a uscirne con la globalizzazione). La crisi economica e finanziaria degli anni Dieci del XXI secolo ha finito il lavoro, sedendosi a lungo su questa montagna già alta e devastando anche la speranza in un benessere futuro: rendendo perciò ogni alba che arriva più angosciosa di quelle che l'hanno preceduta. La pandemia poi, per ora l’ultimo tassello di questo puzzle, ha creato un sentimento quasi millenaristico di fine del mondo conosciuto.

Su tutto questo c'è stato chi politicamente ha speculato e specula ancora oggi, tra alterne fortune. Non è il primo, come dicevo, e non sarà l’ultimo. Anche chi cerca di contrastare queste figure vorrebbe utilizzare gli stessi sentimenti, pur se in modo diverso: paura del fascismo che ritorna, nostalgia di un'epoca di concordia (meglio ripeterlo: più immaginata che reale), sfiducia verso nuove possibili forme di organizzazione sociale, economica e politica. Ma ciò che predomina, è sempre di aver accettato senza troppe riflessioni il paradigma corrente: nostalgia del passato, paura del presente, sfiducia nel futuro.

Io credo invece che ci sia bisogno di avere paura del (ritorno al) passato, eventualmente di sfiducia nel presente, ma soprattutto che ci serva una diffusa “nostalgia del futuro”. L'incapacità di immaginare come dovrebbe essere la vita di coloro a cui lasceremo il testimone, quando non saremo più in grado di portare avanti le nostre idee, è il più grande regalo che si possa fare a chi sfrutta in modo politicamente perverso la pancia degli elettori. Lasciamogli l'oggi, è già loro: inutile discutere di provvedimenti sbagliati che ci sono e che probabilmente resteranno, diamoli per acquisiti e passiamo oltre. Cerchiamo di sfidarli sul terreno che temono di più, quello delle idee, quello dei progetti, quello del tempo che dà un senso all’esistenza dell’essere umano.

Nessun elettore vota pensando che “Quota 100” sarà quello che darà significato alla propria vita; nessun elettore crede che il “Reddito di Cittadinanza” sia un provvedimento in grado di aprirgli le porte del benessere; nessun imprenditore crede che meno tasse gli permetteranno di essere più felice nello svolgere il proprio lavoro; e nessun italiano può stare meglio se tiene fuori dalla porta lo straniero che bussa in cerca di aiuto e rifugio. Se lo credono, hanno scoperto o scopriranno presto che non è così e si arrabbieranno con chi glielo ha promesso, illudendoli per avere il loro voto.
Semmai è ciò che faranno di quel tempo, di quei soldi e di una vera sicurezza a dar loro una vita che valga la pena di essere vissuta: viaggiare, studiare, conoscere, investire, progredire, sentirsi più completi o (più semplicemente, ma molto più concretamente) meno angosciati dal domani. E quindi più desiderosi di impegnarsi in quello che sta attorno a loro.

Riconquistiamo il futuro, che sembra essere scomparso dall’orizzonte del vivere civile, investiamo tutto di noi stessi nella scommessa che il nostro domani collettivo sarà migliore dell’oggi: se lavoreremo bene, ascoltando le persone invece di provare a convincerle, e preparandole a fare domande invece che a bere le nostre risposte (o quelle di chiunque altro). Ognuno di noi cerchi un progetto che ci chieda del tempo per essere completato, e che abbia una ricaduta positiva sulla vita di altre persone. Per me è completare il progetto di una Federazione europea; per altri può essere l’approvazione della proposta di legge “Figli Costituenti”, che va esattamente nel senso di questo contributo. Ci vorrà tempo e sacrificio, e forse perderemo: ma se non sapremo nemmeno provare a farlo non vinceremo mai la lunga battaglia contro l’oscurantismo e le paure.