bonafede grande

In uno Stato di diritto le dimissioni del ministro Bonafede sarebbero state reclamate per l’unica colpa che, significativamente, non gli è stata attribuita: aver permesso che l’immagine del suo dicastero e dunque del governo tutto rimanesse esposta allo sfregio di quell’insinuazione, il passo indietro nella scelta del vertice dell’amministrazione penitenziaria dopo che non meglio indicate realtà criminali avrebbero sussurrato il proprio veto.

Il ministro Bonafede ha ritenuto di sbrigare la questione con una penosa telefonata durante la trasmissione televisiva che aveva lasciato sfogare quella vociferazione, e ha impasticciato una ridicola difesa spiegando che aveva firmato un sacco di provvedimenti restrittivi: il resoconto della solerzia manettara posto a confutazione dell’accusa rivolta contro il ministro disponibile alle sollecitazioni dei mafiosi.

Un esponente del governo dotato di sensibilità istituzionale appena accennata avrebbe dovuto riaffermare in modo chiaro che le proprie determinazioni non sono sottoposte allo scrutinio di un magistrato, tanto meno se la reprimenda avviene nel luogo improprio di uno studio televisivo e con i modi inaccettabili del messaggio obliquo e infamante.

Per lo Stato di diritto c’è qualcosa di peggio rispetto a un pessimo ministro, qual è certamente il ministro Bonafede: c’è lo scandalo di un’amministrazione che abbandona se stessa e la propria credibilità alle requisitorie di un magistrato che sbatte in faccia al Paese l’ipotesi che una scelta di governo sia stata influenzata dal mugugno criminale.

Il ministro avrebbe dovuto difendere la legalità repubblicana e il decoro del proprio ufficio, questo e quella inammissibilmente insultati dalle pretese recriminatorie di un magistrato troppo disinvolto. Sta nella mancanza di questa difesa la colpa più grave del ministro, e innanzitutto questa colpa avrebbe giustificato le richieste di dimissioni. In uno Stato di diritto, almeno. Quello in cui non viviamo.