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La vicenda Amara, Storari, Davigo, Ardita ecc. ecc. e della ‘non indagine’ sulla Loggia Ungheria è in primo luogo la storia del lungo viaggio di verbali secretati nei vari palazzi del potere giudiziario e fuori da essi, fino al terminal finale e obbligato di qualunque carta giudiziaria: i media che ci campano, rivendendoseli ai lettori e telespettatori come tributo peloso al loro diritto di essere informati.

Qui c’è una eccellente ricostruzione delle prime fasi di questo viaggio e del labirinto di relazioni riservate o segrete – l’infinito circuito di Tizio che parla con Caio, che dice a Sempronio ecc. ecc. – e della morale della favola. La giustizia, nel senso del potere giudiziario e di come viene inteso e “auto-governato” ai suoi massimi vertici, è questa cosa qua: un sistema di relazioni per lo più private e informali, di scambi e di dossieraggi, di appoggi e di scaricamenti tra fazioni togate di cui si possono solo intuire le ragioni dei dissidi e che fanno le proprie guerre, le proprie tregue e i propri compromessi sotto la copertura costituzionale della cosiddetta indipendenza della magistratura.

Quanto sta avvenendo ai confini orientali interni e esterni dell’Europa porta certo a apprezzare l’autonomia del potere giudiziario, nel sistema della divisione dei poteri, come presupposto imprescindibile di ecologia umana e politica, cioè come condizione di sopravvivenza dello stato di diritto.

Ma in Italia l’indipendenza della magistratura non è stata la garanzia delle toghe dalle ingerenze o dalle minacce del potere esecutivo e legislativo, ma una sorta di feticcio ideologico per giustificare l’imbastardimento di giustizia e politica, la necessità di relazioni da “potenza a potenza”, come tra stati autonomamente sovrani, perennemente in guerra per negoziare i rispettivi confini. Insomma una guerra oltre lo stato diritto e contro lo stato di diritto.

L’indipendenza della magistratura è diventata la forma della guerra civile tra poteri, in cui le toghe, da Tangentopoli in poi, hanno preteso di esercitare, in nome del principio di legalità, una sorta di tutela morale della Repubblica, finendo così per assomigliare, pure in peggio, ai tanto esecrati politici. La magistratocrazia come partitocrazia togata.

In questo quadro, pretendere di trovare la differenza tra i Palamara perdenti e quelli vincenti, tra i magistrati da ascoltare come oracoli intoccabili e quelli da liquidare come aborriti mariuoli, significa solo rifiutarsi di vedere la realtà. Per paura, per interesse o, ovviamente, per ragioni di potere. La fiducia nella magistratura, dichiarata da tutti, primi i magistrati, è il conveniente travestimento della paura della magistratura per chiunque (anche se magistrato) si senta bersaglio potenzialmente sensibile (poco importa se colpevole o innocente) di un sistema fuori controllo.