Ripartenza: psicologia del controllo antimafia
Diritto e libertà
Se si muove, indagalo. Va bene (si fa per dire) se rimane l’approccio del pubblico ministero. Ma è un disastro quando l’impostazione è assunta a formula di governo: e questa è ormai la cifra del dibattito generale sulla ripresa delle attività produttive e commerciali, con il pericolo di infiltrazione della criminalità organizzata elevato a criterio orientativo di qualsiasi intervento pubblico.
Dichiaratamente, le preoccupazioni antimafia reclamano attenzione sul rischio che l’illecito si insinui nei movimenti economici della ricostruzione, quando l’azione aziendale ritroverà spazio nel rimarginarsi della piaga infettiva. Ma sotto la superficie apparentemente ragionevole di queste cautele lavora un pregiudizio diverso: l’idea che l’iniziativa d’impresa sia potenzialmente se non intrinsecamente maligna, almeno nel suo naturale prestarsi a funzione di ricettacolo del maneggio criminale. E mi pare che nessuno abbia mai rilevato il significato profondo della riprovazione verso la criminalità che si ripulisce investendo nelle attività legali: in qualche modo c’è più accettazione, più tolleranza, meno allarme per l’economia trafficante in clandestinità, e ben più forte risentimento e quasi ripulsa per quella che invece risulta dal lavacro dell’investimento criminale nella corrente delle attività regolari.
E non è vero che questo più grave giudizio è determinato dalla considerazione che il profitto d’origine criminale diventa più difficile da individuare e sanzionare appunto quando trova protezione in area lecita: questa è la giustificazione più semplice e corriva. È vero semmai, secondo questa inconfessata ma riconoscibilissima concezione, che il legalizzarsi della criminalità costituisce in sé una forma anche più oltraggiosa di violazione civile. Per questo pregiudizio, la mafia che dismette la coppola e assume i panni del broker in realtà si criminalizza in una veste altrettanto e forse anche più detestabile: perché il bottino in contante, messo insieme con spaccio ed estorsioni, è il frutto vernacolare della delinquenza culturalmente quasi passabile cui si abbandona il compaesano che sbaglia, mentre è inescusabile e tanto più odioso il profitto ritratto dall’affiliazione al circuito ben più famigerato della società capitalistica, il guadagno proveniente dalle manovre intracciabili e senza volto del “capitale finanziario”.
Non è detto perché è indicibile, ma la causa psicologica del legalismo che pretende di governare l’azione pubblica in campo economico sul presupposto esclusivo del criterio antimafia non risiede nel desiderio di proteggere dalla criminalità l’economia legale: ma nella tentazione di salvaguardare quel profilo dopotutto più accettabile della criminalità. Impedire alla criminalità di sporcarsi le mani negli affari del mercato legale.