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Una delle più odiose balle di questi strani e deprimenti giorni è quella del "modello italiano", quotidianamente rilanciata a media unificati (e con l'orgoglio dei cornuti, dovremmo dire). Perché, se è vero che giornali e TV straniere intervistano i nostri governanti, per capire a che punto sia la situazione nel Paese in cui l'epidemia è stata troppo a lungo fuori controllo (e qui cornetti, dita incrociate, corna o altro gesto apotropaico da parte dei signori uomini ci stanno proprio), è anche vero che il lockdown, che non è un'invenzione italiana e neanche cinese (si fa da secoli quando c'è un'epidemia e questo dà il segno dell'arretratezza in materia di molti Paesi ma non tutti), viene declinato in maniera diversa da Stato a Stato, con punti di caduta pratici diversissimi.

Per intenderci: in quasi tutti gli altri Paesi occidentali non ci sono "i negozi chiusi" ma alcuni o molti negozi chiusi. Non ci sono molte attività produttive ferme ma alcune attività ferme. E non c'è l'obbligo di stare confinati in casa. Si potrebbe pensare che siano piccole differenze ma basti riflettere un solo secondo su come si svolgono le nostre giornate e le nostre vite da un mese a questa parte e quanto queste "piccole differenze" cambierebbero il nostro umore, la nostra poca voglia di coltivare speranza e il grado dei nostri disagi: quanto ci piacerebbe poter uscire a fare una passeggiata, pur nel rispetto del distanziamento sociale e magari con la mascherina (sacrosanto l'obbligo ma, cavolo, sbrigatevi a distribuirle, queste benedette mascherine, ché ci avete già messo un secolo a decidere di ordinarle)? Quanto sarebbe utile e gratificante poter ricomprare al supermercato quella lampadina che si è fulminata dieci o venti giorni fa o quelle calze da mezza stagione che si sono sfilate e con le 40 den cominciamo ad aver troppo caldo? O il quaderno, la carta da disegno, i pastelli, i pennarelli finiti dei bambini, che comunque devono in qualche modo continuare la scuola e passare il tempo, distraendosi un po'?

Ecco, vedere al supermercato gli scaffali della cartoleria, delle lampadine e delle calze con sopra una grande X di nastro bianco e rosso ed il cartello "Articoli non vendibili secondo il DPCM..." suscita indignazione. Perchè anche il buio domestico, le gambe che prudono, i piedi che sudano e i bambini ulteriormente esasperati, che esasperano e fanno sentire impotenti i genitori anche di fronte alla loro necessità primaria o, sia pure, legittima voglia di scarabocchiare e disegnare? Perchè questo inutile e sadico accanimento?

Se il problema è l'impossibilità della concorrenza da parte delle cartolerie, delle ferramenta e delle mercerie, non si capisce perchè nell'Italia delle manovre d'emergenza, con sussidi a pioggia per tutti e quattro spiccioli alla Sanità (salvo collette), non si trovi qualcosa in più da dare a quei negozianti. Ora, mutatis mutandis e per inciso, possiamo anche farci una pur vaga idea di come avere o non avere la TV o un dolce o il famoso cesto di arance o l'ora d'aria o il colloquio settimanale possa cambiare le giornate in carcere: piccole cose quando si è fuori, grandi cose quando si è dentro. Si fa presto a dire "galera": in Norvegia, in Italia o in Marocco non è la stessa cosa.

Ma noi fortunatamente, le arance o un dolce, possiamo comprarli e abbiamo sempre la TV - con la propaganda a reti unificate ma ce l'abbiamo (però l'ora d'aria e il colloquio settimanale, no): e allora che bello vedere la gente passeggiare e fare jogging sugli Champs-Élysées, debitamente distanziata, in canotta e pantaloncini, a godersi i primi raggi di primavera! E le gite domenicali degli Svizzeri, mascherinati e distanziati, in riva ai laghi? Bello, bello, bello, bellissimo! Diceva una dei tanti miserevoli personaggi inghiottiti dal buco nero di questi giorni fatti di virus e di nulla. Incredibile dictu: mi mancano persino lei, la "monnezza", gli agguati dietro i cassonetti, la funivia e gli assessori che inaugurano in pompa magna i cessi pubblici, neanche fossero padiglioni dell'Expo.

Bello sì ma lo pensiamo con una punta di invidia. Ecco si fa presto anche a dire lockdown: non è uguale al nostro in Francia, dove comunque non se la passano benissimo con questo virus, e neppure in Svizzera, che ha una percentuale di contagiati superiore alla nostra ma un tasso di letalità molto molto più basso. Ah, la sanità privata delle casse malati elvetiche! Ma lì non c'è la CGIL. E allora, dalla mia prigionia italiana, chiamo l'inquilina dell'ufficio accanto a Lugano e mi racconta al telefono che "Sì, anche qui sono aperti solo negozi di alimentari e farmacie ma al supermercato le lampadine si possono comprare". Che lusso le lampadine! - penso, pregando Dio che quella del bagno, che ogni tanto balla, non mi abbandoni proprio adesso. E in Germania, come funziona in Germania? Come in Francia e in Svizzera; Baviera a parte.

E com'è il lockdown in Spagna, dove l'epidemia, analogamente all'Italia, è sfuggita a qualsiasi controllo, per ritardi, gravi errori, omissioni, sottovalutazioni, insensati tagli lineari alla Sanità e mancato rispetto di precedenti leggi e regolamenti? Mediterraneans! Due giorni fa, in un trafiletto di uno dei mille giornali online che divoriamo avidamente in questa bolla sospesa nel tempo, si poteva leggere che proprio in questi giorni la ceramica per l'edilizia (in cui l'Italia è storicamente leader mondiale, fatta salva l'agguerrita concorrenza turca degli ultimi anni) perde quote di mercato in favore delle omologhe produzioni spagnole, tutt'altro che ferme.
Quindi liberiamoci da questo Truman show del "modello italiano" e, quando sentiamo parlare di lockdown in un altro Paese, usciamo dalla dimensione consolatoria ma inventata del mal comune mezzo gaudio e chiediamoci: lockdown sì ma come?