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L’obbligatorietà dell’azione penale non è solo un feticcio giudiziario, una presunzione di onnipotenza per una macchina (quella della giustizia) che, come tutte le cose umane, ha risorse scarse e finite e rivendica una capacità infinità di iniziativa e di forza, e dunque di potere. L’obbligatorietà dell’azione penale, in un senso più lato e meno tecnico, è anche un feticcio politico e va inteso come obbligo morale degli uffici della pubblica accusa a occuparsi di qualunque fenomeno allarme e gravità sociale e di qualunque richiesta di giustizia.

Questa duplice obbligatorietà, che è stata non un effetto ma una causa, della deriva antipolitica della Repubblica giudiziaria, trova ovviamente nel caso Ilva un campo privilegiato di azione e di rappresentanza e una sponda prevedibile nei commissari dell’Ilva, che nel loro (chiamiamolo così) “negoziato” con il gruppo franco-indiano scelgono di appoggiarsi ai palazzi del potere per eccellenza, quelli dei magistrati della pubblica accusa, come fanno da almeno un quarto di secolo tutti quelli che pensano di avere subito un torto, dentro e fuori dalla politica, menando scandalo, presentando esposti e adombrando crimini a carico delle controparti.

L’esposto presentato per la presunta violazione da parte di ArcelorMittal dell’art. 499 del codice penale (sarebbe interessante sapere quando e per quali illeciti l’ultima volta si è proceduto in Italia su questo reato) è semplicemente il gancio a cui la procura di Taranto potrà appendere il cappello – e qualcuno già vorrebbe: la corda insaponata – per accomodarsi al tavolo della trattativa.

La costituzione materiale della Repubblica giudiziaria risulta così fondata sull’equivoco del “Processo” (penale) come unica e autentica forma di giustizia. I pm diventano i veri rappresentanti del Popolo, perché terzi e non compromessi dal conflitto di interesse elettorale dei politici e da “parte” processuale assurgono a potere politico globale a istanza generale di garanzia democratica. Tra i tanti effetti che l’avversione e la refrattarietà al pensiero liberale ha cagionato nella cultura diffusa degli italiani la più rovinosa è stata quella di riabilitare a fini profani la logica dell’inquisizione, che non dimostra, ma presuppone e celebra la colpevolezza dell’imputato in un’evidenza di verità indiscutibile, perché inconcussa nel sentimento del popolo. Come per le streghe o per gli untori, la colpevolezza del gruppo franco-indiano è una credenza da affermare, non un’ipotesi da dimostrare.

Il paradosso di questa vicenda è che questo modo di funzionare dello Stato italiano – che fa le leggi, poi le disfa, poi le rifà, poi le ridisfa e poi chiama in soccorso le procure per piegare la controparte riottosa – se dà un’idea di arbitrio, non ne dà alcuna di forza e non aiuta né a salvare gli investimenti su Taranto, né a propiziarne di ulteriori.

La trattativa Stato-ArcelorMittal, condotta con questi mezzi, a tutto serve, ma non a salvaguardare gli inscindibili futuri industriale e ambientale di Taranto (no Ilva, no risanamento). La via giudiziaria allo “scandalo Ilva” è puro nichilismo penale. Fiat iustitia, ruat Ilva. E di quelle rovine la giustizia si farà se non vanto, scudo e giustificazione per la propria severità.

Ovviamente, non sarebbe “patriottico” denunciare questa commedia degli equivoci a partire dalla vicenda dello scudo giudiziario dato ai commissari, e a cui i commissari rimproverano a ArcellorMittal di non volere rinunciare. Ovviamente non sarebbe “popolare” ricordare che la questione dell’Ilva è stata, da ben prima dell’arrivo del gruppo straniero, una tragicommedia nazionale, con interpreti tutti indigeni e responsabilità ampiamente diffuse anche dentro quei palazzi della politica e della giustizia da cui adesso dovrebbero arrivare i salvatori, e che salvatori.

Ovviamente, non sarebbe “corretto” ricordare che tutti i potenti concentrati attorno al capezzale dello stabilimento siderurgico stanno ottenendo ciò che hanno sempre voluto e detto di volere: la morte dell’Ilva.

@carmelopalma