Il “fenomeno Salvini” non è causa, ma effetto del disprezzo dello stato di diritto
Diritto e libertà
Le macchine totalitarie – quelle politiche, quelle criminali, perfino quelle, in senso lato, economiche – non funzionano solo in forza del sopruso e della minaccia, ma anche in virtù di un consenso “spontaneo”, di un’abitudine all’abuso diffusa, di una accettazione in primo luogo culturale dei principi dell’ordine e del disordine costituito. A rendere efficienti queste macchine, prima che la terribilità, è la loro accettata normalità. Non c’è bisogno di fare esempi truculenti, ma ovunque violenza, razzismo e sfruttamento si fanno “Stato” si fanno anche ideologia e senso comune.
Attorno ai problemi della cosiddetta sicurezza in Italia è in corso da decenni un mostruoso esperimento sociale di “desensibilizzazione” da qualunque principio di diritto. Dalla lotta al terrorismo, a quella alla mafia, fino a quella alla corruzione non c’è stata cultura politica – a parte quella radicale – che in nome dello “Stato” non abbia bestemmiato i valori dello stato di diritto e giustificato ogni sorta di eccezione alla regola, fino a privare la regola di quel valore di cogenza necessaria a renderla rispettabile e quindi applicabile.
Ad essersi sgretolata, in fondo, è proprio l’idea generale che una regola, qualunque regola sia per statuto un limite all’esercizio di un potere, e quindi un presidio indispensabile della libertà individuale e collettiva, e non sia solo un mezzo che un potere, qualunque potere, utilizza, adatta e manutiene per adeguarla ai propri fini. Il populismo politico parte appunto dall’assunto che ogni regola sia una nicchia di privilegio e vada divelta e rovesciata per sbrigliare la volontà generale e soddisfare l’interesse del popolo. Si tratta, a ben guardare, dello stesso assunto che sul piano giudiziario ha non solo autorizzato, ma preteso, ogni sorta di manomissione dei codici, per adeguarli alla “lotta” dello Stato a qualunque fenomeno eversivo o supposto tale, a qualunque pericolo sociale, a qualunque allarme diffuso nell’opinione pubblica.
Non siamo arrivati per caso a Salvini, al diritto, alla politica e alla retorica razziale, alla rivolta plebea contro il Palazzo orchestrata dall’interno del Palazzo, in un rutilante carnevale di divise, di felpe e di canotte del Ministro che parla “da padre”. Non ci siamo arrivati per uno squarcio inaspettato dello spaziotempo politico italiano, ma lungo la via battuta per anni dalla politica mainstream, con l’adesione di fondo dell’opinione pubblica. Cambiano ovviamente i bersagli, individuati oggi nei poveracci del mondo. Cambia (in peggio) il rumore di fondo della canea, lo squallore morale della caccia agli untori di una peste che neppure c’è, ma non cambia, purtroppo, la logica del discorso. Salvini ha cambiato il nemico, non ha cambiato la logica della "lotta al nemico" che in Italia è da decenni il fine che giustifica qualunque mezzo, anche l’abolizione dell’habeas corpus.
Salvini disprezza lo stato di diritto e quindi trionfa in un Paese che è stato educato, molto prima di lui, a disprezzarlo o almeno a farselo dispiacere a comando, in nome di una qualunque proclamata emergenza.