leviatano

Nell’ultimo pezzo che ho scritto a proposito della fine della politica e, con questa, della sinistra, così come la storia del XIX e XX secolo ce l’hanno fatta conoscere, ho di proposito tralasciato due termini: Popolo e Nazione. Ho ritenuto, infatti, che meritassero una particolare attenzione, per la carica politico-culturale che portano con loro e per la conseguente forza di legittimazione che hanno avuto, soprattutto il primo dei due, sul potere, sulla sua conquista e sul suo esercizio. E, ancora, perché oggi hanno un revival mediatico sotto l’etichetta di “populismo” e “sovranismo” in funzione acchiappa-voti.

Voglio cominciare con il termine “Popolo”; Nazione ne è quasi un derivato. E comincio da lontano, con Shakespeare e Hobbes, ma l’occhio è sempre rivolto al presente. Riccardo III, atto II, vv. 11 – 43 (passim). Sono i versi nei quali alcuni popolani discutono dei traffici oscuri messi in atto da Riccardo, duca di Gloucester, per diventare re: “In verità i cuori degli uomini sono pieni di spavento; è quasi impossibile discutere con qualcuno che non abbia l’aria triste e piena d’apprensioni. È sempre così alla vigilia di una stagione di mutamenti; per istinto divino la mente umana avverte oscuramente un pericolo incombente”.

E ora Hobbes. Due immagini che appartengono al frontespizio della prima edizione londinese (1651) del Leviatano. Entrambe mostrano un elemento comune: una testa coronata e sotto un corpo che contiene e avvolge tanti piccoli uomini, disegnati nella loro singolarità individuale. Una metafora che sta significare come l’individualità degli uomini, che è portatrice di violenza reciproca (il famoso homo homini lupus), trovi solo nel Sovrano, che si erge su tutti incorporandoli e formando così un insieme, originato dalla incorporazione, la garanzia della vita: vita e sicurezza reciproca in cambio della libertà.

La differenza tra le due immagini specifica in qualche misura il doppio significato della incorporazione-sottomissione: nella prima, la moltitudine di singoli è rivolta verso il sovrano in segno di affidamento; si vedono solo le schiene, i loro visi scompaiono, la loro individualità svanisce. Nella seconda, gli “omini” appaiono di fronte; guardano nella stessa direzione del Sovrano e lui seguono come una guida. Si mostrano come i fedeli che seguono un’immagine sacra per non smarrire la direzione della loro sopravvivenza.

Ho voluto cominciare da qui, dai versi di Shakespeare e dalle immagini del Leviatano, per mostrare le prime “apparizioni” dell’idea di popolo in un’epoca che non ne conosce la costruzione storico-culturale che ne farà l’Ottocento; apparizioni che legano gli individui alle loro paure (Riccardo III) ed alla necessità di affidare la salvezza della vita al potere assoluto del sovrano. Come dire, che lo stare insieme si risolve nella concentrazione assoluta del potere.

Non diversamente la questione torna in Rousseau. È vero che all’origine, secondo la filosofia dell’epoca, vi è un “contratto”; ma quello disegnato da Rousseau ha un esito particolare. Ciascuno dei contraenti, dando liberamente e completamente se stesso a ciascun altro, giunge a formare un corpo sociale organico, la cui unità si esprime nella “Volontà generale”, la quale trova concretizzazione politica e manifestazione normativa incarnandosi nelle delibere del Magistrato. Anche in questo caso i “ciascuno” divengono un corpo unico che si manifesta concretamente, però, nella figura del magistrato che ne incarna la “volontà generale”. I Tutti si manifestano nell’incarnazione di un Uno. A proposito: come mai quella di Casaleggio si chiama “piattaforma Rousseau”? Per caso espressioni come “contratto sociale”, ovviamente via web, e “volontà generale” hanno qualcosa a che fare?

Il “corpo sociale” diviene un “popolo” all’alba del XIX secolo con von Humboldt, con il pensiero romantico e l’ingresso della “Storia” nella rappresentazione e nel racconto delle vicende umane. “Popolo”, allora, è la configurazione di un’entità umana pensata come un “organismo” che, pur svolgendosi nel tempo di generazione in generazione, mantiene fermi quei tratti che lo identificano e lo unificano: la lingua e i “costumi”, vale a dire quelle abitudini di idee, quei comportamenti ritenuti doverosi, quella visione del mondo e della vita che sono talmente interiorizzati che vengono praticati spontaneamente. Così prende forma quella comunità organica detta “popolo”.

Con Hegel il “popolo” acquista una casa: lo Stato “etico”; dove “etico” è la sintesi “storicistica” di quell’unità di lingua e di costumi pensata da von Humboldt. Ciascuno acquista l’autentico se stesso riconoscendosi cittadino dello Stato, il quale trova la sua manifestazione istituzionale nella figura del Legislatore. Il popolo, attraverso la Stato, diventa Nazione. Poiché la realtà come Storia è un racconto di fatti umani pensati come aventi un loro svolgimento intrinsecamente razionale (“tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale”, afferma Hegel nella Prefazione della sua Filosofia del diritto del 1821) e quindi una direzione, allora al Popolo-Nazione si associa anche l’idea di “Spirto del popolo” e di “destino”.

Lo “Spirito del popolo” ha due concretizzazioni interessanti, tra loro opposte: con Hegel consiste nel primato del Legislatore, in quanto voce di quella “eticità” che identifica il popolo; con i giuristi della Scuola Storica tedesca (von Savigny), invece, il primato è dato al diritto consuetudinario così come viene messo in forma dal ceto dei giuristi. Nell’un caso e nell’altro il popolo trova la sua realizzazione in figure che o lo rappresentano (il Parlamento-Legislatore) o ne interpretano la innata coscienza giuridica (i Giuristi). Siamo in pieno ‘800; al centro di quelle vicende che poi segneranno, anche tragicamente, il secolo successivo.

Una conquista: la Costituzione e un Parlamento rappresentativo. E anche: spaccature e conflitti. La sola borghesia, infatti, viene rappresentata nel Parlamento, per via di un suffragio ponderato su base censitaria. Conseguenza: quella moltitudine che aveva trovato la sua unità, prima incorporata nel Sovrano assoluto, poi sotto il palco della ghigliottina, indifferentemente, di Luigi XVI e di Robespierre e ancora sotto le insegne di Napoleone e dello Zar Alessandro, divenuta “popolo” si spacca in “borghesia” e “proletariato”. Lo Stato viene letto marxianamente come “Stato borghese”; la stessa Nazione è solo quella borghese, poiché il proletariato è trans-nazionale. La figura stessa dello Stato, al passaggio del secolo, sembra vacillare (la prolusione pisana sul tema di Santo Romano è del 1909) e occorre ricostruire un nuovo tessuto organico attorno ai ceti produttivi; ma il proletariato, egemonizzato dall’Internazionale Comunista, resta comunque fuori.

Si compie così il passaggio del secolo e un nuovo soggetto compare sulla scena della Storia: la “massa”, tragicamente immortalata dagli assalti alla baionetta contro il filo spinato e le mitragliatrici “alzo 0” della prima guerra mondiale. Il proletariato trova, infine, la sua casa storica nella dittatura dei Soviet che abbattono lo Zar. Il popolo ritrova una sua apparente unità, ricomponendo in qualche misura la spaccatura ottocentesca, prima attraverso un Parlamento non più solo “borghese”, ma poi, anzi subito, oltre il Parlamento, in uomini che lo incorporano, in nuovi Leviatani che ne incarnano il “destino”. Quello tedesco, mortificato dalla batosta della guerra, dalla fine dell’Impero, e dall’infausto esperimento weimariano, in Adolf Hitler; e quello italiano, parimente mortificato, in Benito Mussolini.

Il secondo dopoguerra segna il radicarsi delle democrazie rappresentative: suffragio universale, soggetti di intermediazione rappresentativa tra base popolare e istituzioni di governo (partiti e sindacati), redistribuzione del reddito ne sono stati i pilastri cementati nel primato delle politiche sociali erogate dallo Stato sovrano. Proprio l’omogeneità del radicamento delle democrazie rappresentative ha consentito il dialogo tra gli Stati europei e l’avvio di una possibile politica comune, con il vagheggiamento di un soggetto politico unitario: l’Europa.

Ho ritenuto utile fare questo rapidissimo excursus per sottolineare alcuni aspetti delle questioni che girano attorno all’uso del termine “popolo” ed al suo sinolo con “Nazione-sovranità statuale”; “utili”, appunto, data l’attualità della loro invocazione sotto forma di “ismi”. In primo luogo, “Popolo” e “Nazione” sono termini che hanno una loro origine ed un connesso specifico significato in quanto prodotti di quel concetto di Storia elaborata dal pensiero ottocentesco, come unità organica dotata di una identità di costumi e di coscienza giuridica innata fondati sull’idea di Stato, di legge e anche di libertà, che attraversa il succedersi delle generazioni.

In secondo luogo, ogni qual volta le vicende storiche hanno messo in forte fibrillazione questa forma di riconoscimento sociale, il popolo si è trasformato in “massa” anonima (una sorta di palingenesi dell’antica “moltitudine”) che cerca identità e sicurezza per mezzo di una nuova figura di unità: l’uomo del destino portatore di quel “carisma”, nel quale Weber aveva rintracciato una delle fonti di legittimazione del potere. In altre parole, torna a campeggiare l’antica iconografia del Leviatano, dalla quale ho preso le mosse.

In terzo luogo. Il popolo gode della sua sovranità in quella situazione, sperimentata nel secondo ‘900, per la quale da un lato vi è una cornice di riferimento culturalmente omogenea, messa in forma dallo Stato nazionale, dall’altro la partecipazione all’azione politica avviene attraverso l’elaborazione che soggetti politici o sociali intermedi svolgono delle diverse istanze provenienti dai mondi umani, cui intendono dar voce e rappresentazione.

Quest’ultimo ritengo sia il punto-chiave: l’intermediazione rappresentativa, che fa la differenza tra un popolo-massa ed un popolo-sovrano. Il popolo-massa è assai simile a quegli individui singoli e esistenzialmente soli che costituivano il corpo del Leviatano. Il popolo sovrano è quello capace di distinguere tra le esigenze della propria singolarità di individui, quelle cioè legate alla metafora dell’orto di casa, e l’ampiezza diversa del disegno politico che prende forma attraverso il dibattito delle rappresentanze parlamentari.

Vi è, però, un “però”. La sovranità del popolo, nel significato che ho detto, è strettamente legata ad un’altra sovranità: quella dello Stato, poiché solo quest’ultima produce quel primato della politica sull’economia che, garantendo un orizzonte di libertà, stabilità e sicurezza, crea psicologicamente l’affidabilità della politica nel cittadino comune. Quanto è avvenuto in questi ultimi decenni ne ha modificato profondamente l’orizzonte di riferimento.

Globalizzazione economico-finanziaria e mercatismo hanno introdotto un individualismo competitivo di massa che per alcuni è divenuto un'opportunità, ma per molti ha significato la precarizzazione dell’orizzonte della loro vita. Un fenomeno, è vero, che non ha fatto saltare lo Stato; ma ha fatto di peggio: lo ha reso impotente, rendendo anche l’azione politica dei partiti tradizionali così inadeguata da farli percepire come incapaci di proteggere l’orto di casa, che è il vero “bene” della quotidianità di ciascuno. E, quindi, tutelare l’orto di casa è divenuto l’unico fine sicuro residuale.

Marcuse, in un famoso testo dei primi anni ’70, L’uomo a una dimensione, aveva scritto che le società occidentali avevano scambiato la libertà con il benessere; oggi si può riprendere quella espressione con una modifica di non poco conto: le società occidentali hanno scambiato la libertà con la sicurezza. In che misura, infatti, grandezze globali e movimenti finanziari miliardari possono entrare nella comprensione e negli interessi quotidiani dell’uomo della strada, il cui orizzonte è formato da quelle grandezze di tempo e di spazio che egli può governare con la propria testa e con le proprie emozioni, con le proprie speranze e anche con le proprie paure? E in che misura i soggetti politico-sociali tradizionali, costituitisi nel contesto politico e culturale della sovranità dello Stato, possono oggi rimodellarsi in modo credibile in un orizzonte nel quale proprio le loro coordinate costitutive sono venute meno? È inevitabile che perdano di credibilità e siano destinati a languire.

Di qui, è scontato che abbiano successo quelle forze operanti sulla scena politica che si presentano come i garanti dell’orto di casa, per un verso distruggendo la necessità di una mediazione rappresentativa, perché esiste un terminale mediatico che ascolta e incamera direttamente ogni istanza del singolo; per altro verso, facendo rivivere, con una terminologia surrettizia, l’idea di una identità popolar-nazionale e di uno Stato non più impotente. In questo modo il cittadino medio ritrova un po’ se stesso, in quanto si sente riconosciuto nelle sue esigenze quotidiane insieme a quella sicurezza messa in discussione dal rischio connesso all’affermarsi di diversità di varia natura. Insomma è la metafora dell’orto di casa, e della sua salvaguardia, che credo sia, nella psicologia dei grandi numeri, all’origine del successo di quelle macchine acchiappavoti che operano come Leviatani all’ombra dei sistemi democratici-parlamentari.

Si dice che la democrazia rappresentativa sia il miglior sistema di governo; probabilmente è vero a tal punto che è un sistema che garantisce a ciascuno una libertà tale da poter allestire, tramite la propria partecipazione, anche il suicidio del sistema che lo rappresenta. Come evitarlo? Con un’utopia: l’affermarsi di soggetti politici di respiro effettivamente sovranazionale e quindi, nel nostro caso, europeo, capaci di utilizzare economia e mercati per far rivivere progetti di società, diversi per configurazione ideale, ma comunque “progetti” per una idea di società.

Ma in un tempo egemonizzato dal pragmatismo culturale, dall’equilibrio delle negoziazioni tra potentati e da una tecnologia comunicativa individualistica e individualizzante al massimo grado, che disconosce il valore della competenza e della autorevolezza del sapere, pensare a “idee” per vivere insieme, nel rispetto delle diversità (non della mera tolleranza), temo sia solo un sogno che svanisce con la realtà delle prime luci dell’alba.