orlando minniti

Ancora morti in mare. Due giorni fa un gommone carico di oltre cento persone e diretto verso l’Europa è affondato al largo della costa occidentale della Libia. Almeno trentuno i morti e un’ottantina i sopravvissuti, riportati in porto a Tripoli, da tempo principale punto di imbarco per migranti e rifugiati che cercano di arrivare in Italia. È da lì che, con tutta probabilità, verranno condotti dalle milizie libiche in uno dei centri di detenzione, ufficiali e non, in quanto clandestini. Ed è lì che, con tutta probabilità, saranno sottoposti a violenze e torture di ogni genere.

Una strage, l’ennesima, già annunciata. Da mesi, infatti, si è levato un coro di allarme sulle conseguenze a cui l’accordo stretto il 2 febbraio scorso tra Italia e Libia avrebbe inesorabilmente portato. Un accordo, ad oggi non ratificato dal Parlamento, che nell’intento dei suoi firmatari avrebbe condotto ad una drastica riduzione degli sbarchi sulle coste italiane (qui, il testo integrale).

E così, in effetti, è stato: secondo gli ultimi dati forniti dal Viminale, il calo ha raggiunto la cifra record del -32,55%. Al 24 novembre sono arrivati 115.159 migranti, mentre l’anno scorso, alla stessa data, erano 181.436. Obiettivo raggiunto, quindi, ma a quale costo?

Oxfam, Borderline Sicilia e MEDU (Medici per i Diritti Umani) hanno lanciato a luglio un appello per un radicale cambio di rotta nella politica di gestione dei flussi migratori, diretto prioritariamente a una immediata revoca dell’accordo tra Italia e Libia e a impedire agli Stati membri dell’Unione Europea di stipulare accordi con i paesi di transito il cui governo e le forze di sicurezza non garantiscano il pieno rispetto dei diritti umani. Ad essi si è unito il rapporto di Medici Senza Frontiere. Gennaro Giudetti, ventisettenne volontario sulla nave Sea Watch, che lo scorso 6 novembre ha preso parte al salvataggio di decine di migranti in mare, si è rivolto direttamente al Ministro Minniti, chiedendo di poter essere ricevuto “per raccontagli la verità”.

Sul fronte politico, i Radicali hanno depositato in Procura una denuncia, per valutare se sussistano reati, tra cui anche quello di associazione a delinquere, negli accordi siglati dall'esecutivo con le autorità libiche. Emma Bonino non smette di sostenere, nel silenzio delle istituzioni, che debbano essere creati canali di immigrazione sicuri e regolari verso l’Europa. Infine, pochi giorni fa, è arrivato l’allarme dell’alto commissario Onu per i diritti umani, che ha definito “disumana” la collaborazione del nostro paese con la Libia.

E accanto ai costi umani, c’è da chiedersi se il risultato ottenuto sia stato frutto di un obiettivo cui aveva davvero senso mirare.

Nonostante le parole da scenario apocalittico del Ministro dell’Interno, che avrebbe “temuto per la per tenuta democratica del Paese di fronte a barricate per l’arrivo di migliaia di stranieri”, i dati ci dicono che non esiste, da un punto di vista numerico, alcuna emergenza, che siamo un paese in declino demografico e che, per stare in equilibrio tra pensionati e lavoratori, abbiamo bisogno di stranieri. La verità, allora, è un’altra, e “fa male lo sai”, avrebbe detto qualcuno.

La verità è che la politica attuata dal Ministro Minniti, mira, con risultati peraltro poco rassicuranti, ad “aiutarli a casa loro” perché incapace di far fronte alle due grandi questioni che avrebbero potuto, e che anzi potrebbero, portare ad una gestione virtuosa ed efficiente del fenomeno migratorio: integrazione e contrasto alla criminalità.

L’Italia è stata soggetto assente in questi anni nel costruire una forte e credibile politica di integrazione. Lo si vede dallo stallo che si è formato sull’approvazione in Parlamento della c.d. legge sullo Ius Soli. Una legge che amplia i criteri per ottenere la cittadinanza italiana prima dei diciotto anni, rivolgendosi, principalmente, agli immigrati di seconda generazione, ai bimbi nati o cresciuti in Italia. Lo si vede, ancora, dal fatto che a colmare un vuoto di prospettiva politica ci abbia dovuto pensare una forza extraparlamentare, quale attualmente è quella radicale, che il mese scorso ha consegnato alla Camera dei deputati oltre 85.000 firme a sostegno della legge di iniziativa popolare “Ero Straniero”, per superare la legge Bossi-Fini sul reato di clandestinità, riformare il sistema di accoglienza e introdurre canali legali e sicuri di arrivo in Europa.

Certo, lavorare su questa strada costa tempo e fatica, soprattutto sotto periodo elettorale, dove è più semplice comunicare per frasi fatte. Ma è la strada maggiormente sostenibile a livello democratico, maggiormente vantaggiosa a livello economico e maggiormente indirizzata verso l’idea di un’Europa unita.

È poi la strada che garantisce maggiore sicurezza sociale. Eh sì, perché un’ulteriore questione su cui l’attuale governo non è stato capace di fornire risposte è stato quella della diffusa percezione dell’esistenza di un nesso tra immigrazione e criminalità. Di fronte all’ascesa dei movimenti di estrema destra, che utilizzano “l’ondata migratoria” per creare consensi elettorali e paure collettive, non siamo stati in grado di porre sul tavolo dell’opinione pubblica, anche in termini di linguaggio, un’alternativa credibile. Alternativa che pure ci sarebbe.

Partiamo da una semplice domanda: esiste, realmente, un nesso tra immigrazione e criminalità? Il dato statistico che alimenta l’equazione “più immigrazione uguale più criminalità” è quello relativo alla presenza di stranieri in carcere, circa un terzo della popolazione detenuta in Italia. Solitamente, ci si arresta a questo dato, traendone la conclusione che, considerata la percentuale di stranieri in Italia, circa dell’8%, il tasso di delittuosità di questi è di gran lunga superiore a quello degli italiani.

Eppure, occorre considerare che la stragrande maggioranza degli stranieri detenuti (circa il 90%) sono irregolari. Se si guarda a quelli regolari, la percentuale di detenuti sul totale della popolazione carceraria scende al 3%. Sono, quindi, gli irregolari che coprono la quasi totalità della percentuale straniera detenuta, a dimostrazione che investire in processi di regolarizzazione e di integrazione significa porre in essere un’azione di contrasto alla criminalità.

Seconda osservazione: più della metà degli stranieri è in carcere in via preventiva, ossia senza che sia stata emessa nei loro confronti una sentenza definitiva di colpevolezza o di innocenza. Gli italiani in carcere condannati definitivamente sono, invece, la maggioranza (il 70% circa). Questo è il diretto effetto di un sistema giudiziario che espone maggiormente lo straniero al carcere preventivo: gli stranieri hanno meno possibilità di accedere ad una tutela legale qualificata e a misure alternative alla detenzione, cui spesso non riescono a beneficiare in assenza di domicilio considerato stabile o di un lavoro che sia documentabile. Ne consegue che la presenza di stranieri in carcere è “drogata” verso l’alto, senza che a ciò corrisponda a un maggiore tasso di delittuosità.

Ma quella dell’accordo italo-libico e dell’assenza di politiche di integrazione, non è l’unica lente attraverso la quale osservare la gestione italiana dell’emergenza migratoria. C’è un'altra strada, meno nota, ma altrettanto preoccupante, su cui il Governo ha deciso di spendere le proprie energie e che prende il nome di legge Minniti-Orlando. La legge ha riformato in modo sostanziale la disciplina per la valutazione delle domande di protezione internazionale. Il provvedimento sarebbe sorto per combattere l’immigrazione clandestina e per accelerare le procedure dei richiedenti asilo, ma ha finito, in sostanza, per mostrare tutte le sue contraddizioni.

In primo luogo, ha ristretto i tempi a disposizione del migrante per dimostrare alle commissioni territoriali competenti di avere diritto alla protezione internazionale: “la nostra certificazione medico legale - raccontava al settimanale Left un medico del direttivo di Medici Contro la Tortura - avveniva nei tempi che erano opportuni. Ora con un solo mese di tempo a disposizione, questo non è più possibile, e soprattutto, i migranti che hanno subito torture andranno allo sbaraglio in commissione”.

Ha eliminato l’obbligo, per il giudice adito a seguito di un parere negativo della commissione territoriale, di convocare in udienza il migrante e il suo avvocato. L’unico momento di ascolto resta, quindi, quello davanti alle commissioni, la cui composizione (quattro membri di cui uno, il viceprefetto, vale doppio in sede di decisione) fa sorgere dubbi, perché, come sostenuto dal vicepresidente dell’Arci, “si intravede un indirizzo ben preciso. Se l’indirizzo del governo è respingere, loro respingono”.

Infine, il testo ha eliminato la possibilità di ricorrere in appello a seguito di un respingimento in primo grado. E ciò, nonostante tra il 2010 e il 2016, le Corti di appello abbiano dato ragione al richiedente asilo 7 volte su 10 (fonte Sprar). Con l’effetto, inoltre, paradossale di intasare i ruoli della Corte di Cassazione, che, a differenza delle Corti di appello, è una sola. Questa legge, insomma, altro non rappresenta che una diversa faccia della stessa medaglia di strategia (o miopia) politica: chiudere i canali di ingresso dall’esterno e ostacolare il più possibile i processi di regolarizzazione all’interno. Facendolo, anche in questo caso, tramite il sacrificio dei diritti individuali. Alimentando, anziché gestendo, terreni di irregolarità e, di conseguenza, di insicurezza sociale. Insomma, un cane che si morde la coda.

Eppure un altro racconto è possibile. E non è un racconto fatto di buonismo o di pietas, ma di buon senso, di analisi, di numeri, di dati, di soluzioni, certamente non miracolose, ma obiettivamente più efficaci. È, soprattutto, un racconto che, mostrando un’alternativa all’innalzamento di muri e alle chiusure nazionaliste, disegna una prospettiva diversa per la nostra società.

Articolo pubblicato anche su radicali.it