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La cosa più rilevante dal punto di vista penale dell'intercettazione tra Matteo e Tiziano Renzi è che è stata pubblicata illegalmente. Dopo lo scoop di ieri de Il Fatto - in Italia si chiama impropriamente scoop la "postalizzazione" giornalistica delle veline di atti coperti dal segreto, passate ai media dalla pubblica accusa, dalla polizia giudiziaria o direttamente dalle aziende fornitrici del servizio di intercettazione - la discussione di oggi gira intorno a questo problema, senza neppure sfiorarlo.

Ci si interroga sul possibile uso politico che l'intercettato (Matteo Renzi) avrebbe fatto della prevedibile intercettazione, organizzando una messinscena a fini difensivi destinata a finire sui giornali dopo qualche giorno (come è puntualmente avvenuto) o sulla prosecuzione della guerra strisciante tra la Procura di Napoli, che ha disposto l'intercettazione e quella di Roma, che l'ha giudicata irrilevante e che ha indagato per falso un capitano del NOE, dopo avere sottratto al Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri, caro al pm napoletano Woodcock, le indagini sul caso Consip proprio alla luce delle “ripetute rivelazioni di notizie coperte da segreto”. Tutte queste interpretazioni, illazioni, ipotesi e deduzioni logiche stanno però a valle di un fatto - quella della pubblicazione illegale di una intercettazione penalmente irrilevante - che pone una questione sistemica di semplicissima soluzione tecnica, ma di complicatissima gestione politica, che Renzi e i maggiorenti del PD si limitano a denunciare, ma si guardano e si guarderanno bene dall'affrontare.

Perché è così facile pubblicare illegalmente atti di indagine coperti da segreto ovvero atti non più coperti da segreto, e disponibili agli indagati, ma di cui la legge vieta la pubblicazione integrale o parziale proprio a garanzia dell'interesse dello Stato al corretto svolgimento del processo accusatorio e della posizione paritaria delle parti processuali? Per una ragione straordinariamente banale: per il reato di pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale (articolo 684 del codice penale) è punito "chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d'informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione", come previsto dagli articoli 114 e 329 del codice di procedura penale, "con l'arresto fino a trenta giorni o con l'ammenda da cinquantuno euro a duecentocinquantotto euro". Violare la legge e commettere questo reato semplicemente non costa niente.

Per impedire il traffico di intercettazioni tra giornali e procure sarebbe sufficiente prevedere sanzioni economiche serie, non oblazioni ridicole con cui oggi gli editori e i giornali si comprano il diritto di commettere reati molto più profittevoli. Il reato può essere agevolmente depenalizzato e sostituito da una sanzione amministrativa costosa, ma non sarà il PD di Renzi a proporre questa semplicissima soluzione e, se qualcuno la proponesse, sarebbe in prima linea per osteggiarla. Per ragioni comprensibili, ma non onorevoli.

Perché decidere di risolvere questo problema significherebbe sfidare la retorica "onestista" dell'intercettateci tutti, che ha avvelenato per due decenni la discussione e la cultura della giustizia in Italia, fronteggiare la rivolta delle procure interessate a usare i giornali per sputtanare indagati riluttanti e testimoni riottosi e per giungere a processo assistiti da una superiore legittimazione "politica" su imputati e difensori, e infine affrontare le proteste dei media, sempre pronti a gridare alla legge bavaglio, non per la repressione della attività giornalistica di inchiesta, ma per il contrasto alla diffusione illegale di "pizzini" impacchettati da una parte processuale, che non garantisce affatto, ma compromette il diritto dei cittadini ad avere una informazione completa e corretta su una vicenda giudiziaria di pubblico interesse.

Però, piuttosto che continuare a prevedere un reato con una sanzione così ridicola da rappresentare una istigazione a delinquere, sarebbe più onesto legalizzare il traffico di veline, arrendersi ufficialmente alla cultura dello sputtanamento e al nauseabondo "pecorellismo" dell'informazione giudiziaria nel Paese della giustizia malata. Così sarebbe ancora più chiaro dove sta il potere che non può essere sfidato.

@carmelopalma